“Capitalismo di Guerra”: i dazi prima di Trump

Un libro tratta approfonditamente il tema dell’intreccio tra guerre ed economia, inclusa la importante questione dei dazi doganali, su cui male si esercitano trombette e tromboni dei media mainstream e dei social. Anche sui dazi è utile fornire dati concreti, e non virus utili a decimare l’opinione pubblica. Il testo in questione è il recente saggio Capitalismo di guerra (Fuori Scena, 2025), di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro, che ho avuto il piacere di presentare in un incontro, organizzato dalla Biblioteca della Società Economica di Chiavari, con la presenza Carlo Stagnaro (direttore del Centro ricerche e Studi dell’Istituto Bruno Leoni ed editorialista de Il Foglio).

Ebbene, sui dazi la Storia e i dati rovesciano la communis opinio dei telegiornali (ci vuole poco: viviamo in mondo di bari e baroni di Munchausen). Chiaramente, le guerre periferiche e asimmetriche determinano di per sé una spinta verso una maggiore presenza dello Stato e l’autarchia nelle materie prime. Nel caso dell’Europa, dopo il brusco risveglio dovuto all’invasione dell’Ucraina, si è passati dal nutrire un nemico potenziale ma manifesto (compravamo dalla Russia il 40 per cento del gas consumato in Europa) alla ricerca di fornitori alternativi.

Venendo ai dazi inter-atlantici, il primo caso eclatante si verificò nel 1930, quando gli Usa, con lo Smoot-Hawley Tariff Act, incrementarono i dazi su circa 20mila prodotti, provocando una ritorsione dei principali partner (europei, soprattutto). Questa politica “è considerata una delle principali ragioni per cui la recessione di fine anni Venti si trasformò in Grande Depressione, che durò per tutto il decennio successivo” (Capitalismo di Guerra, pagina 26). Negli anni successivi l’import statunitense calò del 40 per cento e buona parte del crollo fu dovuto ai dazi imposti. Negli anni Sessanta ci fu la così detta “chicken war” tra Stati Uniti ed Europa, dovuta all’import di polli allevati in batteria. Negli anni Ottanta vi fu la controversia sugli ormoni nella carne. Non vanno dimenticati casi politici, come quello del Nobel per la pace assegnato nel 2010 al dissidente cinese Liu Xiaobo, cui il governo di Pechino reagì, bloccando l’import di salmone norvegese. A sua volta, il presidente Ronald Reagan nel 1981 impose delle sanzioni alle aziende europee ed americane che utilizzavano tecnologia americana per costruire il primo gasdotto tra la Russia (ancora sovietica) e la Germania.

Anche nel caso dei dazi sull’acciaio e l’alluminio, imposti da Donald Trump nel 2018 (ma mantenuti dall’amministrazione Biden) gli Usa si sono giustificati sostenendo che era una “questione di sicurezza nazionale”. La Cina, che era tra i Paesi sanzionati da Trump (che aveva incluso anche alleati come Australia, Argentina, Corea del Sud, Canada e Messico), reagì immediatamente, imponendo dazi su 128 prodotti americani (acciaio, alluminio, aerei). Anche la Ue reagì applicando dazi su prodotti made in Usa, tanto che esempio la Harley Davidson fu tassata col 56 per cento. I dazi furono mantenuti anche dall’amministrazione di Joe Biden, che avrebbe esentato la Ue, a patto che questa imponesse a sua volta dazi sulla Cina, il che non avvenne, così la trattativa fu bloccata e i dazi restarono. Con Biden nuove imposizioni doganali colpirono la Cina, a partire dai pannelli fotovoltaici e dalle auto elettriche (le “minicarcinesi sono state recentemente colpite dalla Ue). Dal 2018 al 2024 i dazi produssero al governo americano un gettito di 233 miliardi. Stagnaro e Saravalle considerano la cifra ricavata come “una tassa sui consumatori americani”.

Nel luglio 2024, prima che scoppiasse la guerra dei dazi di Trump, la Ue valutò come scorretto il sistema cinese di dare sussidi di Stato alle fabbriche di pannelli fotovoltaici e di auto elettriche, pertanto applicò tassazioni doganali di entità variabile tra il 17 e il 38 per cento, in aggiunta ai dazi già esistenti. Attualmente, le auto cinesi in Europa sono tassate del 50 per cento (Negli Usa del 100 per cento). Ovviamente senza lo scudo doganale europeo, una minicar cinese (se ne trovano anche a 3.000 euro, ma con batterie non al litio, scarsamente performanti), ci costerebbe quanto una bici elettrica, il che certo sarebbe un vantaggio per il consumatore europeo, ma porterebbe alla chiusura delle nostre fabbriche di auto, e in questo campo c’è il problema dell’economia di guerra: “E se poi ci bloccassero i pannelli e le auto?”. Secondo Saravalle e Stagnaro c’è una correlazione positiva tra il libero commercio internazionale e la diminuzione della conflittualità bellica, per cui, se oggi ci troviamo tra Scilla e Cariddi il motivo è dovuto all’interventismo statale contro i mercati aperti.

Capitalismo di guerra, oltre che di dazi, si occupa anche dei molti meccanismi distorsivi del commercio internazionale di questi anni. Per esempio, le sanzioni imposte alla Russia dopo l’attacco all’Ucraina: sono corrette, ma vengono aggirate con la così detta dark fleet creata dal Cremlino per vendere petrolio e gas per mezzo di un “mercato grigio” che alla fine colpisce il commercio legale e premia nazioni politicamente perverse, come Iran, Cina e Nord Corea, oltre a India e altre nazioni. Un altro effetto distorsivo consiste nel premiare l’industria nazionale. Cominciò Barack Obama, e in seguitò continuò Joe Biden con l’Inflation reduction act (Ira), che consisteva in alcuni incentivi sui prodotti nazionali legati alla transizione energeticagreen”: pannelli made in Usa, auto elettriche, batterie. Questi sussidi, scrivono Stagnaro e Saravalle, costeranno 400 miliardi nel decennio 2022-2031 secondo il Congressional budget office ma, secondo Goldman Sachs, si potrebbe arrivare a 1.200 miliardi. In Europa il “Rapporto Draghi” del 2024, propone un “bazookaeconomico da 800 miliardi di euro.

Inoltre c’è la guerra dei semiconduttori. Alcune società, come Samsung e Intel, se li producono in house. Altre li sviluppano in casa, ma li fanno produrre all’estero, soprattutto a Taiwan dalla potente TMSC. Vi sono poi aziende poco appariscenti, come l’olandese ASMI, che si occupa di produrre le macchine per la fotolitografia, indispensabili per la produzione di chip, di cui ASMI è monopolista. Nel 2024 TMSC deteneva il 61,7 per cento del mercato mondiale di microchip, e Samsung l’11 per cento. Contro la cinese Huawei si sono scatenate guerre sul punto della intercettazione di dati. La penetrazione tecnologica di hacker è centrale nelle guerre commerciali, come abbiamo visto in questi giorni con l’attacco hacker che ha colpito Windows, col risultato di aver penetrato i “wall” di server che avevano dati sensibili per la sicurezza degli Stati Uniti. In questo campo l’amministrazione Biden ha rinforzato lo stop a Huawei e ad altre potenziali multinazionali nemiche. Ebbene, la Cina che per l’acquisto di chip spende di più che per l’acquisto di petrolio, replicò bloccando l’acquisto di chip statunitensi della Micron Technology. Il “Chips and science act di Biden” del 2022, impiegava 280 miliardi di dollari (tra sussidi, crediti d’imposta, investimenti in ricerca e sviluppo), per incrementare la produzione di semiconduttori negli Usa” (op. cit, pagina 61). Biden tra l’altro erogò 11 miliardi di dollari alla taiwanese TMSC.

L’economista Lorenzo Bini Smaghi osserva che la guerra dei dazi vive una contraddizione singolare: nonostante le previsioni nefaste di quasi tutti gli economisti, Wall Street continua a crescere, e molto: non li teme. Forse gli investitori ritengono che i dazi alla fine impatteranno poco sull’economia. Smaghi ipotizza che il Pil americano non sia poi così influente nei mercati azionari: contano di più le Sette Sorelle, che non sono più i vecchi atout del petrolio, ma quelli dell’hi tech, tutti ben internazionalizzati. Un’altra ipotesi è che Wall Street dia più valore alla “deregulationtrumpiana che ai dazi.

Aggiornato il 22 luglio 2025 alle ore 09:34