Affitti brevi: la burocrazia avanza, la libertà arretra

Regioni e Stato stanno trasformando il diritto di locare in un labirinto Normativo, il proprietario in un sorvegliato speciale

“S’ode a destra uno squillo di tromba; A sinistra risponde uno squillo: d’ambo i lati calpesti rimbomba da cavalli e da fanti il terren”. Non è però il coro dell’atto secondo de Il Conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni, che commenta la battaglia di Maclodio e il tema della guerra tra italiani. È l’Italia di oggi che, da Trieste a Pantelleria, legifera sugli affitti brevi. Infatti, in un crescendo normativo che ha il tono dell’assedio, ogni forza politica, livello istituzionale o comparto burocratico rivendica il diritto di disciplinare, autorizzare, classificare e, infine, limitare ciò che un tempo era un semplice contratto tra privati.

L’ultimo colpo in ordine di tempo viene dalla Sicilia e dal decreto attuativo n. 2104 del 25 giugno 2025, che completa la legge regionale siciliana n. 6/2025, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Regione n. 11 del 28 febbraio 2025. Un testo corposo, minuzioso, totalizzante, che ha la pretesa di regolare l’intero ecosistema turistico-ricettivo, imponendo requisiti minimi strutturali, obblighi di classificazione, Scia, Pec, polizze assicurative, controlli sui flussi, esposizione del codice identificativo nazionale (Cin) e persino divieti di check-in automatizzato.

L’ossessione regolatoria tocca persino vette di puro paradosso. Ogni locazione turistica dovrà essere accompagnata da una comunicazione di inizio attività, corredata da planimetria, certificato catastale, regolamento condominiale, attestazione di agibilità e, se in condominio, dalla prova dell’assenza di contenziosi civili. L’insegna dell’immobile dovrà poi riportare il Cin in posizione visibile, il gestore dovrà registrare ogni giorno – anche in assenza di ospiti – i flussi turistici nel portale regionale, e i dati catastali dovranno coincidere al subalterno. Quanto alla dotazione minima, si impone tutto: comodini, grucce, tappetini da bagno, scopini, dispenser anti-vandalismo, carta igienica di riserva, sapone intimo, persino poltroncine a coppia. Il bagno, se condiviso, dovrà essere uno ogni quattro ospiti. Il letto supplementare è regolato al centimetro. E chi volesse denominare la propria offerta “Luxury” o “Boutique” dovrà chiedere espressa autorizzazione. Si vieta il self check‑in, si impongono comunicazioni Pec su Pec, si pretende la classificazione delle unità locate come “strutture ricettive”, rendendole formalmente simili ad alberghi. È la trasfigurazione del rapporto privato in procedimento amministrativo, con l’aggiunta di sanzioni e chiusura per recidiva.

Ma la Sicilia non è sola. Dalla Toscana all’Emilia-Romagna, dalla Sardegna al Trentino, è tutta una gara a chi impone più vincoli, più criteri, più codici. A livello nazionale, la legge n. 191/2023 ha introdotto una regolazione già piuttosto restrittiva e ora si annunciano pure ulteriori inasprimenti: sanzioni per l’assenza di Cin, obblighi informativi verso le questure, armonizzazione coattiva con le banche dati centrali. È un fenomeno bipartisan, in cui l’unica vera maggioranza è quella del controllo. E la concorrenza, paradossalmente, è tra le istituzioni, non tra gli operatori.

Il risultato è una catena di montaggio regolativa che annulla ogni autonomia negoziale. Un proprietario non può più decidere liberamente se e come locare il proprio immobile per brevi periodi: deve dimostrare di avere gli estintori, gli impianti a norma, i rilevatori di gas, la certificazione di classe energetica, la posta elettronica certificata, la pubblicità conforme, la cartellonistica in lingua, l’assicurazione per i rischi e il calendario sempre aggiornato. E tutto ciò senza che esista alcun riscontro effettivo tra burocrazia e miglioramento della qualità del servizio.

Dietro lo scudo della legalità e della “concorrenza leale” si nasconde un’idea paternalista e illiberale di città, mercato e proprietà. Si presume che il cittadino sia incapace di valutare, contrattare e scegliere, che ogni spazio debba essere censito, standardizzato, vigilato. Si presume altresì che la libertà sia un pericolo da contenere. È l’amministrazione che decide se un’abitazione è idonea a essere affittata, con quali modalità, a chi e per quanto tempo. Il tutto, naturalmente, con l’obiettivo dichiarato di “valorizzare il turismo”.

In realtà, si produce l’effetto opposto: riduzione dell’offerta, aumento dell’irregolarità, scoraggiamento degli investimenti, congestione dei mercati alberghieri, spinta al nero. L’intervento pubblico, lungi dal proteggere i consumatori o migliorare i servizi, finisce – more solito ‒ per distorcere i meccanismi spontanei della cooperazione volontaria, sostituendosi a essi con un apparato sanzionatorio che colpisce la forma anziché la sostanza.

Non si tratta di un episodio isolato, ma del sintomo evidente di una mentalità che vede nella proprietà non una garanzia da tutelare, bensì un problema da disciplinare. È in definitiva una visione che pretende di riscrivere i rapporti civili secondo logiche politiche, dimenticando che il diritto nasce per limitare il potere, non per moltiplicarne gli strumenti. E si può dire, senza tema di smentita, che dove un tempo bastava una stretta di mano, oggi servono venti pagine di decreto.

Così, se la casa non è più un bene ma un codice, un’autorizzazione, un numero su un registro, il proprietario cessa di essere titolare di un diritto per diventare semplice gestore di una funzione. E l’abitante, da cliente, si trasforma in soggetto amministrato. È il segno di una regressione profonda, che colpisce non solo la libertà, ma anche il senso stesso del vivere civile.

Un tempo, la casa rappresentava qualcosa di più: rifugio, presidio, fondamento. “La roccaforte dell’uomo”, l’aveva definiva Giovanni Verga nei Malavoglia. Ma oggi quella roccaforte è cinta non da mura, ma da formulari, adempimenti, autorizzazioni. Non si considera, allora, che la libertà – anche quella abitativa – non tollera padroni né pianificatori. Né è un premio da concedere, ma una condizione originaria da rispettare. E ogni volta che il legislatore smarrisce questa consapevolezza, un altro pezzo di società si spegne, tradendo anche l’antico, lucidissimo ammonimento di Gioachino Belli: “Er monno va da sé, nun c’è bisogno de tante leggi e de tanti decreti”. E non è solo il passato a dirlo: è il buon senso che oggi manca.

Aggiornato il 04 luglio 2025 alle ore 11:47