Da Venezia a Roma la caccia all’ospite indesiderato

Dalla retorica del ripopolamento al controllo degli affitti: quando la casa privata diventa il vero bersaglio

“Un multimiliardario si vuol far bello scegliendo Venezia per il suo matrimonio? Per me va benissimo”. Con queste parole Marco Balich, il regista dei grandi eventi olimpici ha provato a smorzare le polemiche esplose dopo il passaggio di Jeff Bezos nella Serenissima. Ma subito dopo ha invocato un nuovo protagonismo pubblico: “Il sindaco non dovrebbe accontentarsi delle elemosine, ma negoziare con chi ha grandi possibilità economiche perché faccia davvero la sua parte”. Ecco svelata l’anima vera del dibattito: non si discute di rispetto o decoro, ma di prelievo e controllo. Non si giudica un matrimonio, ma si rivendica il potere di decidere chi può fare cosa, dove, quando e a quali condizioni.

La scena è esemplare. Da un lato, le autorità locali che vogliono trasformare Venezia in un parco a pagamento, stabilendo biglietti d’ingresso e limiti morali per chi desidera semplicemente celebrarla. Dall’altro, lo Stato centrale che pretende di imporsi sulla casa privata, stabilendo norme sempre più intrusive per chi affitta liberamente un proprio immobile. In proposito, è di pochi giorni fa la notizia che il ministero dell’Interno ha impugnato dinanzi al Consiglio di Stato la sentenza del Tar Lazio che aveva annullato l’obbligo di check-in fisico per gli affitti brevi. Nonostante i giudici, con decisione condivisibile, abbiano riconosciuto l’eccessività della misura, in violazione della proporzionalità e della privacy, il Viminale insiste: l’identificazione faccia a faccia è, secondo loro, “fondamentale”.

È un passaggio chiave. Perché mostra come il vero bersaglio di questo scontro non sia il turista frettoloso né l’imprenditore globale, ma il cittadino comune che cerca di valorizzare la propria proprietà in modo lecito. È a lui che si impone una burocrazia crescente, una normativa mutevole, un clima di sospetto. In nome della sicurezza, della legalità, dell’ordine urbano, si costruisce un sistema in cui chi affitta una stanza è trattato come un problema da contenere. E chi affitta per breve periodo è colpevole di “snaturare” le città.

A Roma, peraltro, la situazione è rivelatrice. Il Giubileo avrebbe dovuto portare 35 milioni di visitatori e 17 miliardi di euro. Invece, gli affitti brevi hanno subito un brusco rallentamento: le strutture occupate sono scese dal 78 per cento al 70 per cento, e il 38,5 per cento dei proprietari è uscito dal mercato. Le cause? Non certo la concorrenza sleale, ma promesse disattese, opere pubbliche in ritardo, trasporti inadeguati. E intanto si continuano a demonizzare gli host, accusati di speculare, mentre in realtà cercano solo di difendere il proprio reddito.

È in questo contesto che le dichiarazioni di Balich sul ticket di Venezia – “5 euro è poco, bisognerebbe salire a 15 o 20” – suonano più come minaccia che come soluzione. La pretesa che la città “vada meritata” ribalta ogni principio di accoglienza. Chi decide che cosa merita chi? E con quale autorità? L’idea che si debba filtrare l’accesso alle città in base al portafoglio o alla permanenza prolungata è pericolosa: fa delle città monumentali non luoghi vivi, ma riserve morali gestite dal potere.

Sulla medesima linea si innesta una retorica sempre più martellante: quella del “ripopolamento” a tutti i costi. Un argomento apparentemente nobile, che però si è trasformato in un pretesto per imporre limiti: agli affitti, alle presenze, alle scelte. Si parla di tetti agli Airbnb, di restrizioni per chi possiede più di tre case, di obblighi tecnologici che mascherano la voglia di sorvegliare. Ma la realtà è che si colpiscono proprio quelle dinamiche spontanee che permettono alle città di evolvere, adattarsi, sopravvivere. Non è il turismo a svuotare i centri storici, ma l’incapacità di amministrarli con intelligenza e rispetto. Non sono gli affitti brevi a cacciare gli artigiani, ma l’oppressione fiscale e le regole paralizzanti.

In realtà non si può sfuggire a un dato essenziale: ogni casa affittata è un segnale di vitalità urbana. Ogni iniziativa privata rappresenta un gesto concreto di resilienza e di fiducia nel futuro delle città. Chi oggi si lamenta degli effetti della globalizzazione dovrebbe ricordare che Venezia è nata spontaneamente, senza alcuna pianificazione centralizzata, come rifugio autonomo. È cresciuta grazie all’impulso del commercio, all’iniziativa dei singoli e alla libertà dei traffici, prosperando per secoli senza burocrazia romana né moralismi padani. I pensatori veneziani, da Sarpi a Contarini, hanno sempre guardato con favore a un ordine civile capace di sostenersi sul dinamismo economico, sulla responsabilità individuale e sulla fiducia nell’intraprendenza privata come motore di progresso collettivo.

Identico discorso vale per Roma, che non è mai stata il frutto di una pianificazione imposta dall’alto, ma il risultato di una continua stratificazione di iniziative individuali: dalle insulae repubblicane ai rioni medievali, dalle trasformazioni rinascimentali ai quartieri ottocenteschi nati dall’espansione borghese. La Capitale si è evoluta nel tempo grazie a migliaia di scelte personali: famiglie che hanno costruito, adattato, affittato, trasformato. Questa vitalità non è mai dipesa da regolamenti astratti, ma da una libertà diffusa, fatta di autonomia edilizia e sociale. Lo ricordava bene Cicerone, difendendo la sua casa espropriata dall’arbitrio politico: “Utrum me patria sic accepit ut lucem salutemque redditam sibi ac restitutam accipere debuit, an ut crudelem tyrannum?” (“Mi ha la patria accolto come doveva accogliere il ritorno della luce e della salvezza, o come un crudele tiranno?”). Dietro ogni casa espropriata c’è sempre, ieri come oggi, un tentativo di ridefinire il potere, la dignità e la libertà dell’individuo.

Oggi invece si pretende che tutto passi dal permesso, dal ticket, dal piano. Si afferma che servono “scelte impopolari”, ma si tace che quelle impopolari sono spesso anche ingiuste. Perché ogni volta che si spegne un’iniziativa spontanea, ogni volta che si ostacola chi affitta, ospita, apre la propria casa al mondo, non si tutela una città: la si svuota. Si spegne la vita in nome dell’ordine. E si dimentica che le città vive non hanno bisogno di regole paternalistiche: hanno bisogno di fiducia.

Il punto non è difendere i miliardari, ma chi ha una casa e vuole affittarla, chi viaggia e desidera autonomia, chi investe e chiede regole stabili. È qui che si gioca la partita: sul confine tra proprietà e potere, tra uso privato e pretesa pubblica.

La casa non è un’attività da sorvegliare, ma un’estensione della persona da rispettare. E Venezia e Roma, che nei secoli hanno prosperato grazie alla libertà di scambio, d’iniziativa, di movimento, non hanno bisogno di nuovi moralismi o piani calati dall’alto. Hanno bisogno di fiducia. Non di chi le osserva da un ufficio, ma di chi le abita, le custodisce, le tiene vive – senza dover chiedere permesso.

Aggiornato il 25 giugno 2025 alle ore 10:47