
Fmi, Ocse e Commissione Ue spingono per colpire la proprietà immobiliare. Ma dietro la retorica dell’equità si nasconde un disegno dirigista che minaccia proprietà e libertà
Nel cuore della tradizione italiana c’è una certezza silenziosa, sedimentata in decenni di lavoro, sacrifici e progettualità: la casa. Non come status, ma come sicurezza, come manifestazione tangibile dell’autonomia individuale e della trasmissione intergenerazionale del risparmio. Eppure, proprio questo simbolo della stabilità familiare e sociale si trova oggi al centro di un attacco concertato e sistemico, che proviene non da un governo nazionale, ma da una costellazione di istituzioni sovranazionali.
Nelle ultime settimane, tre attori internazionali di peso – Fondo Monetario Internazionale (Fmi), l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e Commissione europea – hanno rilanciato, quasi in simultanea, la proposta di un aumento della tassazione immobiliare in Italia. Il 29 maggio 2025 il Fmi, nel suo Country Report sull’Italia, ha raccomandato una riforma del catasto che adegui i valori immobiliari ai prezzi di mercato, sostenendo che ciò renderebbe il sistema fiscale “più equo”. L’Ocse ha rincarato la dose con l’Economic Outlook del 3 giugno, sollecitando un aumento della tassazione sugli immobili come misura per rafforzare la sostenibilità fiscale. Infine, la Commissione europea, nelle Raccomandazioni del 4 giugno 2025, ha riproposto il tema della riforma catastale come necessaria per l’“efficienza e giustizia” del prelievo.
È un disegno che si presenta con abiti tecnocratici, che ha però risvolti profondamente ideologici. La retorica dell’equità e della modernizzazione maschera, infatti, un obiettivo chiaro: rendere il patrimonio immobiliare, fino ad oggi base sicura del risparmio privato, un terreno di prelievo stabile e crescente. Non si tratta di correggere storture occasionali, ma di riorientare l’intero sistema fiscale, trasformando la casa in un bersaglio sistematico.
L’aggiornamento dei valori catastali, di per sé, può apparire innocuo. Tuttavia, se lo si collega all’Imu, alle imposte di successione, alla futura revisione delle aliquote, diventa evidente che l’effetto cumulativo sarà un aumento sensibile del carico fiscale per milioni di famiglie. In un Paese dove il 72 per cento degli italiani vive in una casa di proprietà, spesso frutto di rinunce e sacrifici, ciò equivale a colpire la spina dorsale economica della popolazione.
Ma non è tutto. L’aumento delle imposte patrimoniali mina il principio stesso della certezza del diritto. Il cittadino che ha acquistato un immobile ha compiuto una scelta sulla base di un quadro fiscale noto. Cambiare le regole in corsa, aggiornando i valori e moltiplicando le imposte, equivale a una forma mascherata di espropriazione. Non si tassa il reddito prodotto, ma il patrimonio accumulato. E lo si fa in modo discrezionale, con criteri stabiliti dall’alto, senza alcun contraddittorio.
È bene ricordare che, storicamente, ogni attacco alla proprietà privata è sempre iniziato con l’idea che “qualcuno possiede troppo” o “qualcun altro non possiede abbastanza”. Ma in Italia, la casa non è un privilegio: è il frutto di una cultura prudente, di un risparmio diffuso, di una diffidenza verso la volatilità dei mercati e le promesse dello Stato. La proprietà immobiliare è stata per decenni un’alternativa concreta all’assistenzialismo pubblico, un antidoto alla dipendenza.
In buona sostanza, le proposte internazionali odierne riecheggiano la stagione dell’“equo canone” o dell’imposta straordinaria del 1992: interventi nati per “riequilibrare”, finiti per distruggere valore, fiducia e investimento. Ogni volta che lo Stato (o una sua emanazione esterna) ha messo le mani sul mattone, lo ha fatto in nome di una giustizia redistributiva che si è rivelata punitiva verso il ceto medio e improduttiva per l’economia.
Non è un caso che nessuno di questi organismi internazionali proponga una drastica riduzione della spesa pubblica. Non si chiede allo Stato di ritirarsi, ma ai cittadini di pagare di più. L’agenda è sempre la stessa: mantenere in piedi un sistema burocratico ipertrofico, spostando il prelievo da chi produce a chi possiede. È la logica della rendita istituzionale, non del progresso.
Il problema non è il catasto, ma l’idea secondo cui il patrimonio debba essere continuamente sottoposto a nuove forme di tassazione per compensare l’incapacità pubblica di contenere la spesa. È un’impostazione che svuota il significato stesso della proprietà. Se ogni anno bisogna versare un’imposta crescente per conservare ciò che già si possiede, allora nessun proprietario è più titolare, bensì un semplice usufruttuario sotto condizione.
Colpire il risparmio immobiliare, in questo contesto, significa minare la cultura della responsabilità, dell’indipendenza, della progettualità familiare. È l’antitesi della giustizia: un ritorno a una logica premoderna, dove solo il potere centrale detiene la proprietà e al cittadino resta solo un’occupazione temporanea, revocabile e instabile.
La vera riforma dovrebbe andare in direzione opposta: stabilità fiscale, certezza normativa, neutralità rispetto alla forma del risparmio. Uno Stato che rispetta i cittadini non ricalcola ogni anno il valore della loro casa per incassare di più. Riconosce il valore della stabilità e costruisce fiducia. Solo così si libera davvero la forza produttiva della società.
Aggiornato il 13 giugno 2025 alle ore 10:26