
Una proposta laburista mira ad attribuire allo Stato di decidere cosa è “giusto” vendere, guadagnare, acquistare. Ma reprimere il profitto non protegge il consumatore: lo priva della concorrenza e della libertà.
In Irlanda si sta preparando una stretta senza precedenti contro i supermercati. È di questi giorni infatti l’iniziativa, promossa dal deputato laburista Ged Nash, portavoce del Partito Laburista per le finanze, la spesa pubblica, la Riforma del servizio pubblico e la digitalizzazione, si chiama Unfair Prices Bill (“Disegno di Legge sui prezzi ingiusti”) e prevede l’estensione dei poteri della Competition and Consumer Protection Commission (Commissione per la concorrenza e la protezione dei consumatori – Ccpc), che potrà sanzionare ciò che considera “prezzi eccessivi” e chiedere alle catene di distribuzione di giustificare i propri margini di profitto. Il mancato adempimento sarà un reato. Non si tratta di una misura ordinaria di trasparenza, ma di un atto punitivo verso chi ha “l’ardire” di guadagnare.
Ad avviso del proponente, il progetto muove dai dati del Central Statistics Office e dell’agenzia Kantar, secondo cui i prezzi dei generi alimentari nell’isola verde sono aumentati fino al 30 per cento negli ultimi tre anni, con un aggravio medio di 2.000 euro annui per famiglia. Il burro ha toccato i 4,69 euro a panetto, mentre carne, latte e formaggi seguono lo stesso trend. Tuttavia, la risposta richiesta al legislatore, più che affrontare le cause, prende di mira i sintomi. Non è affatto scontato che l’aumento dei prezzi sia frutto di “avidità”. In realtà, in un’economia di scambio volontario, i prezzi riflettono l’incontro dinamico tra domanda e offerta, tra rischi, investimenti e aspettative.
Inoltre, c’è da chiedersi: cosa significa “eccessivo”? Chi decide quando un margine di profitto è legittimo e quando diventa oggetto di repressione? Non esiste una soglia neutra che separi l’onesto dallo speculativo. Trasformare il profitto in un problema penale significa sottrarre l’attività economica al giudizio del mercato e affidarla a quello discrezionale e mutevole del potere politico. È un’inversione pericolosa: lo Stato, da garante delle regole, diventa arbitro del risultato.
In buona sostanza, è innegabile che la proposta irlandese sia fondata su un presupposto fallace: l’idea che si possa fissare autoritativamente e dall’alto un prezzo “giusto”, prescindendo dalla realtà. L’economia non è però una morale, è piuttosto il modo attraverso cui le società rispondono alla scarsità e coordinano milioni di decisioni autonome. Se un bene diventa più caro, ciò stimola i produttori a offrirne di più e i consumatori a riorientare le scelte. È proprio questo meccanismo che consente al sistema di adattarsi. Bloccarlo con la minaccia del Codice penale significa impedire l’aggiustamento e aggravare le rigidità.
Peraltro, non è inutile rilevare che, quando un governo interviene per fissare prezzi, salari o saggi d’interesse, non introduce un correttivo neutro, ma altera la struttura stessa del mercato. Se impone un prezzo massimo, scoraggia l’offerta e spinge i produttori marginali a ritirarsi. Se impone un prezzo minimo, crea surplus e sprechi. Il risultato è un sistema distorto, in cui l’autorità deve moltiplicare i controlli, intervenire sui costi di produzione, regolamentare ogni passaggio. È così che, passo dopo passo, la libertà economica viene sostituita dall’economia diretta.
Si crede di colpire l’ingiustizia, ma si ottiene scarsità. Si vuole proteggere il consumatore, e lo si priva della possibilità di scegliere. Ogni prezzo imposto dallo Stato sostituisce il giudizio degli individui con quello dell’apparato. E più l’intervento si estende, più il sistema perde la capacità di auto-correggersi. Alla fine, non resta più un mercato, ma una catena di ordini e divieti. Quando si pretende di governare l’economia senza tener conto delle sue leggi, il risultato non è mai la giustizia sociale: è solo il fallimento.
Nel caso irlandese, a essere in pericolo non è solo la libertà d’impresa, ma la libertà tout court. La concorrenza non è un dettaglio tecnico, ma il fondamento della sovranità del consumatore. È ciò che consente a ogni cittadino di votare con il proprio portafoglio, di premiare l’efficienza, di scegliere il meglio. Se lo Stato stabilisce cosa è troppo caro, cosa è troppo redditizio, cosa è “sufficiente”, viene meno il principio stesso della libertà economica.
Il vero aiuto alle famiglie non consiste nel colpire chi vende, ma nel facilitare chi vuole produrre, investire, competere. I prezzi aumentano perché ci sono barriere all’ingresso, costi imposti, incertezze create proprio dal legislatore. Ridurre le imposte, liberalizzare il commercio, semplificare le regole: ecco la strada. Ma è una via più difficile, perché non promette risultati immediati né offre nemici da colpire. Per questo l’interventismo torna sempre, mascherato da buon senso e giustizia.
La verità resta comunque la stessa. Se il profitto è un incentivo, reprimerlo significa colpire la produzione stessa. E se il consumatore è il sovrano del mercato, la sua unica tutela autentica è la concorrenza, non la repressione autoritaria. Chi dice il contrario non sta difendendo il cittadino. Lo sta solo trasformando in suddito.
Aggiornato il 05 giugno 2025 alle ore 14:21