“Familiar Touch”: se la mente si spegne

Che cosa c’è di più pericoloso per un anziano del piano inclinato, dove le cadute simboliche e reali sono sempre in agguato? La prima specie citata (il precipizio simbolico) è la mente che, gradualmente ma inesorabilmente svanisce per effetto di demenza senile e Alzheimer. Molte opere cinematografiche sono state dedicate a questo dolorosissimo tema, che coinvolge famiglie, amici, strutture sanitarie in tutto il mondo. Però, pochissimi hanno la stessa efficacia di Familiar touch (in uscita nelle sale itale il 25 settembre, per la regia di Sarah Friedland), girato nel corpo vivo, e con protagonisti veri, in un lussuoso centro per la cura degli anziani. Film incantevolmente interpretato da Kathleen Chalfant, nel ruolo della protagonista Ruth, madre dell’architetto Steve (H. Jon Benjamin), e da Carolyn Michelle, l’assistente Vanessa e dal suo coordinatore Brian (Andy Mcqueen). Giocato con grande delicatezza e tatto sul “tout s’en va (dans la vie)”, in cui la vita stessa e la mente sono candele che si consumano, a velocità del tutto personalizzate, in funzione del patrimonio genetico e dell’ambiente socio culturale. Allora, per meglio descriverlo, non ci poteva essere altra scelta da parte della regia che un gioco attento, profondo ed emotivamente coinvolgente sui primi piani della Chalfant, che attrezza sulla scena una mimica impagabile, quasi come una persona che abbia fatto un viaggio impossibile di andata e ritorno tra il buio progressivo della mente e il ritorno miracoloso alla luce.

Molto belli, in particolare, sono i semplicissimi dialoghi tra i terapeuti e Ruth, in cui la malattia è inquadrata con esattezza nei protocolli medici, orientati a stabilire l’entità e la velocità di declino della perdita di memoria. Così, per Ruth tout s’en va, nella totale incoscienza del destino che scorre come un tappeto volante sotto i suoi piedi, uscito da una Lampada di Aladino di un genio folletto che nasconde alla presenza il nome del proprio figlio, che non può più assumersi la responsabilità di lasciare incustodita sua madre nella bella casa di famiglia. La storia, inizia con la quasi normalità di Ruth, che aspettando il figlio, prima esita a lungo, di spalle, nella scelta dell’abbigliamento, dalla cui ripetitività (le stampelle scorrono più volte in un senso e nell’altro, senza che la mente trattenga l’immagine corretta degli indumenti esposti) si evince che qualcosa non funziona nella coazione a ripetere dell’anziana. E poi, una volta vestita, la stessa sensazione permane in quel suo preparare in modo buffo la colazione per il figlio in arrivo, utilizzando aromi del tutto improbabili. Ed è Steve a condurre una Ruth quasi trasognata nella casa di riposo da lei scelta, in cui immediatamente i responsabili creano attorno all’anziana signora una sorta di culla sanitaria. Ben addestrati nell’uso della voce che non va mai oltre le righe e, anzi, riesce a coinvolgere Ruth con la dolce preghiera “questo fallo per me” (sottinteso, “che ti voglio bene”). Struggenti sono gli incontri di gruppo tra gli ospiti, in cui senza troppo sorprendere, è proprio la parte “gineceo”, per così dire, quella davvero coinvolgente in cui le signore giocano a show-girl nate, essendo le prime e le più partecipi in tutte le attività collettive, feste di gruppo comprese.

Poiché la malattia è una sorta di pelle di leopardo, la memoria materna che dimentica e d’improvviso riaccende il nome del figlio, si accompagna al mantenimento temporaneo di skill come la passione per la cucina, di cui stupiti beneficiano per un breve tratto tutti gli ospiti e gli stessi assistenti, dando contestualmente una dolorosa sensazione del defluvio di capacità mentali in corso. Perché, tout s’en va, come la casa di Ruth, in cui lei non tornerà mai più, affidata a degli “smaltitori” professionali di mobilia, libri e suppellettili, in cui è la nipote di Ruth (bella come sua nonna) a indossare un suo elegante cappotto, per lei un po’ troppo largo. Bella metafora dell’eredità dei gusti, che meravigliosamente transita attraverso le generazioni, e qualche volta ne salta una o più, per tornare misteriosamente. Ruth, che a un certo momento, in una situazione topica di gioco (scegliersi una ventina di fidanzati tra gli anziani presenti) fugge via profondamente ammalorata, perché come un vapore di vulcano qualcosa ha scosso i suoi sentimenti sopiti, essendo stata un giorno moglie e amante. E tout s’en va, con l’ultimo struggente ballo lento, stretta come una fidanzata al figlio dolorosamente rassegnato. Se non volete sapere, allora non andate a vederlo.

Voto: 8,5/10

Aggiornato il 19 settembre 2025 alle ore 18:37