
“Capirei tu non puoi, tu chiamale se vuoi… emozioni”. Sono le parole centrali della canzone più iconica della musica leggera, pubblicata il 15 ottobre 1970 dal duo Lucio Battisti-Mogol. Inizia così l’evento straordinario: Giulio Rapetti, in arte Mogol, classe 1936, in piedi per oltre un’ora, pieno di energia e memoria, racconta e canta i grandi successi di Lucio. Il viaggio si chiama “Emozioni. La mia vita in canzone”, organizzato dalla Domino Eventi e dal Comune di Velletri con la voce di Gianmarco Carroccia e la sua band formata da Stefano Profazi (chitarre); Luca Monaldi (batteria e percussioni); Dario Troisi (pianoforte e synth); Alessandro Patti (basso); Michele Campo (violino) e Christian Vilona (sax e flauto), il quale non è un interprete di Battisti, ma “l’interprete”, per la straordinaria somiglianza vocale.
Lo spazio è suggestivo: il Teatro del Fieno, una distesa di fieno appena tagliato, una cornice di balle e il palco allestito dal dinamico service di Alessandro Di Stazio, che si estende tra la piana veliterna sullo sfondo del mare di Anzio e Nettuno. Una serata di vento colorata di rosso. Tutto voluto da Paolo Felci, assessore allo Sport, Commercio, Turismo e Spettacolo della cittadina che diede i natali a Cesare Augusto. Felci è un purissimo di destra storica, che sotto l’egida della giunta guidata dal sindaco Ascanio Cascella per Fratelli d’Italia, sta lavorando sodo su iniziative ed eventi per rilanciare la cultura emotiva italiana. “L’appuntamento con Carroccia-Mogol appartiene a questa progettazione”, afferma il primo cittadino, l’avvocato Cascella. “Il Teatro del Fieno è un’idea che avevo da ragazzo – spiega Felci – Io sono nato poco distante da qui e sono riuscito con la collaborazione dei residenti e di tutte le forze investite a far decollare un’area che ha già ospitato partecipatissime iniziative”.
Mogol sale sul palco alle 21.30 con la fibra di un giovanotto, il sorriso che sfonda e un foglietto in cui ha messo giù la scaletta della serata. L’occhio di bue lo mette al centro: “Questa canzone, la prima che sentirete, l’ho scritta di getto. Eravamo andati a fare un’escursione a cavallo in Brianza dove avevo casa. Lucio aveva buttato giù la musica. Io lavoravo in una stanzetta distaccata dal corpo centrale. In una manciata di minuti sono venute le parole della prima parte. Ricordate? Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi, ritrovarsi a volare… la mia famiglia era pronta per tornare a Ovada, nel Monferrato, erano già tutti in auto. Andiamo Giulio, cosa aspetti? Ma io avevo quelle parole che fluttuavano e così mentre guidavo scrivevo con la mente e arrivato a casa sono corso in studio e ho scritto la seconda parte”. In due ore e mezza il successo diventa Emozioni, che prende il largo in questa notte ancora magica per descrivere sul pentagramma le fasi più intime dell’animo umano.
“Non si canta più come una volta”, è la riflessione dell’insigne autore musicale, che ha scritto non solo per Battisti ma per gli artisti dagli anni Settanta a oggi: da Mina, Adriano Celentano, Renato Zero a Mango, Riccardo Cocciante, Gigi D’Alessio, Eros Ramazzotti e infiniti altri. E il cui secondogenito, Alfredo Rapetti che firma come Cheope, ha prodotto per Laura Pausini e Raf. “Oggi si canta per comunicare, negli anni Settanta e Ottanta si cantava per far sentire soprattutto la voce. Io sono presidente del Cet, il Centro europeo di toscolano, in provincia di Terni, che è l’accademia della composizione e preparo giovani e professionisti a curare la voce, ma ho dovuto difendermi da critiche. Invece anche se si ha un buon testo non si deve prescindere dalla preparazione musicale”.
Come nasce l’ispirazione? “Io dico ai giovani scrivete”, incalza ritto, con la voce calda e forte il padre della musica leggera. “Quando avete un tormento, un dubbio, un dolore, non state a covarlo, non state a rigirarvi, scrivete parole, perché la poesia e la musica nascono così. Sono atti spontanei del vissuto, una canzone per avere presa deve raccontare un evento intimo e personale che diventa corale e vissuto insieme. Un giorno mi viene a trovare un sacerdote amico con i suoi 30 seminaristi, tutti in saio, e mi chiede di conversare con loro. Ma io avevo un impegno di lavoro, per cui li lascio a casa e quando torno, avendo ritardato, sento da lontano che cantavano felici. Una donna per amico… perbacco, pensai, dove trovo a quest’ora 30 donne per costoro? Nacque così Dieci ragazze”.
Gianmarco Carroccia, che è nato a Fondi in provincia di Latina, si è diplomato al Cet di Mogol e dal 2014 ha iniziato a collaborare col Maestro diffondendo la memoria e la produzione di Battisti. Passa da un successo all’altro e coinvolge la platea. “Anche per te è una carezza a tre donne che ne avevano bisogno”, racconta Giulio Rapetti. E spiega la sua teoria, mentre faccio una riflessione. Credo che la prematura dipartita del genio Battisti, a soli 55 anni, abbia segnato non solo una generazione, ma il suo alter ego Mogol. Sta di fatto che l’autore è diventato uno dei più esperti in prevenzione delle malattie, ha fondato un centro, La Rinascita, ha scritto un libro sulla prevenzione primaria, Oltre le parole (a cura di Clemente Mimun e Vittoria Frontini, Edizioni Minerva), che riguarda l’adozione di comportamenti e interventi che mirano a evitare l’insorgenza di malattie, promuovendo uno stile di vita sano e consapevole. “Sapete cosa ho scoperto dopo anni di documentazioni? Che cantare insieme cura la persona, cura i mali non solo esistenziali, perché cantare insieme libera le endorfine e scarica le tossine. Bisogna cantare e cantare insieme”.
Il mito ottuagenario con la verve di un ragazzo si erge sul palco, alza la mano e intona tutte le canzoni, sollecitando il pubblico, che si unisce, si avvicina, si abbraccia in una sola voce. E sono I giardini di marzo: “La canzone in cui ho raccontato la mia vita, che è diventato l’inno quando vince la Lazio”. E penso a te: “Scritta in una 500 in quattro. Lucio davanti con la chitarra e io dietro col solito foglietto di carta”. Ed è La canzone del sole e Con il nastro rosa. “Ero fidanzato con una bella donna che a cui sfuggì qualche brutta parola. Restai perplesso, ma mi piaceva molto così che ci passai sopra. Però la cosa mi fece riflettere e pensai che in fondo non conosciamo l’altro. Ecco allora le parole una frase sciocca, un volgare doppio senso, mi ha allarmato, non è come io la penso, ma il sentimento era già un po' troppo denso. E son restato”. Chi sa chi sei? In fondo è il dilemma di sempre e di tanti giovani, che si intercettano ma non percepiscono il volto oscuro dentro ciascuno, che Mogol descrive con delicatezza, pazienza, soprattutto senza rabbia e violenza. Senza quei puntigli e affermazioni pur legittime, che però a volte possono scatenare reazioni drammatiche.
Che dire, mi ritorna in mente tutto, il tempo magico, l’età del sogno, le bionde trecce, scritta quando Mogol aveva sei anni e si innamorò di una lei di appena cinque. L’amore, l’amore su tutto, questo afflato eterno, la firma di Lucio e Giulio, un’era, un tempo, la storia della musica, non solo la nostra storia, la memoria che serve, che resta, che ci canta dentro. La cultura delle emozioni, il migliore Made in Italy.
(*) Ascolta qui un estratto de La canzone del sole
(*) Ascolta qui un estratto di Dieci ragazze
Aggiornato il 15 luglio 2025 alle ore 14:49