
Da Leibniz a Bach con Deleuze
Nel suo saggio Le Pli. Leibniz et le Baroque (1988), Gilles Deleuze sviluppa una delle sue intuizioni più suggestive: il Barocco non è solo uno stile artistico, ma una modalità dell’essere e del pensare. Questo stile si esprime nella forma della “piega” – pli, in francese – che Deleuze identifica come principio plastico, dinamico, ma anche ontologico. La piega non si limita alla materia: si insinua nell’anima, nella soggettività, nell’infinito delle forme.
Il pensatore più profondo di questa logica del piegare è per Deleuze Gottfried Wilhelm Leibniz, filosofo del Seicento famoso soprattutto per la sua teoria delle monadi. In Leibniz, ogni monade è un mondo piegato dentro di sé, senza porte né finestre, ma riflettente l’universo intero da un punto di vista unico. Il mondo, per lui, è composto da infiniti punti di vista interiori, ognuno dei quali è un dispiegamento armonico del tutto. Questa visione si accorda perfettamente con l’estetica barocca, che rifiuta la chiarezza cartesiana in favore di una complessità dinamica, fluida, curvilinea.
È in questa cornice che si comprende l’analogia tra la filosofia leibniziana, l’estetica barocca e la musica di Johann Sebastian Bach. Pare che Bach sia morto con il De Arte Combinatoria di Leibniz sul comodino e il suo monumento a Lipsia sostituì quello di Leibniz, in un passaggio simbolico che sembra sancire una continuità di visione. L’arte di Bach, in particolare l’Arte della Fuga, può essere interpretata come una “arte del dispiegamento”. Ogni fuga parte da un tema che viene ripiegato, moltiplicato, invertito, aumentato, diminuito. Il soggetto si dispiega in una serie di variazioni che non esauriscono mai la sua potenzialità.
Il fatto che l’ultima fuga dell’opera resti incompiuta sembra confermare questo principio: l’infinito non si chiude, non si arresta. Non c’è un punto finale perché la piega non ha fine. Essa è una macchina generativa: Bach non compone per chiudere, ma per lasciare aperto l’infinitamente possibile.
Ma non è solo Bach che sembra assecondare questa logica, quasi a sondare e cercare d’esaurire tutte le possibili combinazioni. L’intera arte dello sviluppo all’interno della storia della musica – dal classicismo viennese di Haydn e Mozart, alla potenza drammatica di Beethoven, fino a Brahms – può essere letta come un’incessante modulazione dell’arte di dispiegare dei temi musicali, che diventano in questo senso germogli di forme che si espandono, si contraggono e si riaprono, secondo una logica combinatoria che non è mai ripetizione, ma variazione, e dunque dispiegamento. Virtualmente si tratta di un dispiegamento infinito e forse è per questo che a volte le parti finali di un movimento, o di una sinfonia, di un concerto o di una sonata sembrano talora delle cuciture, qualcosa che serve a chiudere con alcuni accordi che fungono da nodi ciò che altrimenti potrebbe continuare a svilupparsi all’infinito.
La piega non è solo forma, ma forma pensante, che genera una soggettività come potenza che può passare all’atto solo attraverso il suo sviluppo. La musica, come il pensiero, è in questo senso un’arte della piega e del suo eterno dispiegarsi. Con Deleuze, possiamo allora leggere la storia della musica – almeno fino all’inizio del Novecento – come un’evoluzione del grande laboratorio barocco del possibile: una mappa sonora delle pieghe dell’essere stesso nel suo manifestarsi mediante un numero indefinito di variazioni e di prospettive musicali.
Così, la piega leibniziana trova nella musica una delle sue espressioni più profonde. E il Barocco, lungi dall’essere un capitolo chiuso, è forse ancora oggi l’anima nascosta di ogni creazione che riesce a dare vita a nuove forme di interiorità, dispiegandole in modo non arbitrario, ma rispettando secondo regole rigorose l’andamento della loro propria piega, essenziale e unica.
Il discorso di Deleuze ha un’estensione interessante non solo nella musica, ma anche in altre arti, come l’architettura e la letteratura. Nel cuore del Barocco romano, per esempio, l’opera di Francesco Borromini incarna un’idea dello spazio come dinamismo interiore e tensione metafisica. Le sue architetture, dalle facciate di San Carlo alle Quattro Fontane alla cupola elicoidale di Sant’Ivo alla Sapienza, sembrano non tanto costruite quanto piegate. In questa torsione delle architetture di Borromini, con le loro linee fluide e le reiterate alternanze di concavo-convesso, si riflette una concezione della realtà non più stabile e misurabile, ma dinamica, ciclica e virtualmente infinita. La piega, in Borromini, non è solo una scelta stilistica, ma una visione del mondo, la stessa che Deleuze individua come cifra distintiva del Barocco. La piega è ciò che travalica la superficie, che si avvolge su se stessa proseguendo verso l’anima e verso Dio. Leibniz pensa il mondo come un insieme di monadi, ciascuna riflesso dell’intero, ognuna portatrice di una prospettiva unica. La realtà non è unitaria ma composta da infinite possibilità. In Borromini come in Leibniz, l’infinità non è trascendente, ma incorporata, immanente nella materia, nei muri che si curvano, negli spazi che si aprono a nuove forme di luce e di moto.
La nozione deleuziana di piega non si rivela poi meno feconda in ambito letterario, dove non si può non ricordare come Jorge Luis Borges, lettore acutissimo di Leibniz, abbia fatto della nozione di possibilità uno dei nuclei della sua scrittura. Nei suoi racconti il tempo si biforca, lo spazio si moltiplica, ogni atto ne implica altri mancati, mai compiuti ma sempre presenti come possibilità latenti. È la visione leibniziana dei mondi possibili che Borges porta in letteratura, perché così come Borromini piega lo spazio, Borges piega il tempo e la narrazione. In Il giardino dei sentieri che si biforcano o ne La biblioteca di Babele ogni evento è solo uno dei tanti possibili e ogni libro solo una delle pressoché infinite combinazioni virtuali di parole e lettere.
Persino in uno scrittore che risulta per altri versi molto distante dalla cultura barocca come Marcel Proust si possono rintracciare declinazioni e sviluppi dell’idea di piega quale la intende Deleuze. Nella Recherche, Proust esplora infatti questa stessa logica non tanto attraverso la teoria, ma mediante l’indagine per certi versi fenomenologica di stati d’animo esasperati e analizzati fino alle più estreme e paradossali implicazioni. Nella gelosia di Marcel per Albertine, per esempio, non contano tanto i fatti, quanto le possibilità: ciò che Albertine potrebbe aver fatto, ciò che avrebbe potuto desiderare. Il dolore non nasce dal reale, ma dal possibile. Come in Leibniz, l’universo proustiano è fatto di varianti, modulazioni, ripiegamenti. Il tempo stesso, nella Recherche, si comporta come una piega: ritorna, si torce, si dilata, si sovrappone. La memoria involontaria non è il semplice recupero del passato, ma la scoperta di un piano nascosto sotto la superficie del tempo lineare.
In Bach, Borromini, Borges e Proust, la piega è l’emblema di una realtà che non si lascia dunque contenere nella linearità. È il segno di un mondo destinato a dispiegarsi e a ripiegarsi, che si mostra sempre sotto nuove angolature e sviluppi imprevedibili, tendendo per sua natura a sondare e percorrere tutte le possibilità di una combinatoria virtualmente infinita.
La piega è il gesto barocco per eccellenza, dove arte, architettura, filosofia e letteratura si danno convegno per dire che l’universo può essere letto come un tutto organico e concepito come una sorta di Aleph dispiegato nella sua iridescenza, dove si trovano in una forma compressa tutte le combinazioni possibili di ogni singolo istante con ogni sguardo creatore di senso.
Aggiornato il 04 luglio 2025 alle ore 15:42