Dal processo accusatorio al processo millantatorio

giovedì 17 luglio 2025


Quando la verità si piega al potere della narrazione, fatto che rappresenta un bisogno spasmodico di rappresentare se stessi affermando un potere d’imperio che si vuole affermi, a sua volta, una verità soggettiva intesa come totale e assoluta

Di fronte allo spettacolo quotidiano della cronaca giudiziaria, siamo spettatori, controvoglia, di una metamorfosi insidiosa: quella che trasforma il processo accusatorio, fondato sul contraddittorio e sull’oggettività delle prove, in un processo millantatorio, dove a dominare è la rappresentazione soggettiva, la verità personale che diventa totale e assoluta quanto certa. Dai media, non passa giorno che non ci propongano nuove “rivelazioni” su delitti già giudicati e archiviati, vicende che ritornano ciclicamente come fiction seriali.

I protagonisti, spesso improvvisati opinionisti, grandi studiosi, percettori di fatti e rivelatori di certezze fondate sul si dice ma poco testimoniali, ex inquirenti per nulla abbacchiati di ommessa o ingiusta passata operatività, ma nel podio più alto gli aspiranti influencer del crimine che rilasciano dichiarazioni fondate su convinzioni personali, su ipotesi presentate come certezze, su suggestioni mai suffragate da fatti. E quelle verità parziali diventano, per loro, verità totali.

Il problema non è soltanto la spettacolarizzazione del processo, ma un’inquietante dimenticanza selettiva: non si denunciano o si ignorano volutamente, le opacità, le leggerezze investigative, le operazioni pressappochiste che, in certi casi, hanno compromesso il corretto accertamento della verità. Si preferisce puntare il dito a posteriori, ricamando sul sospetto anziché riflettere sull’errore. Così facendo, si alimenta una nuova forma di potere: la millantocrazia.

Nel processo millantocratico, indiscusso figlio di una nuova forma di protagonismo, chi parla non cerca di capire, ma di imporsi con la retorica e la rappresentazione di se con un potere personale. Non vuole discutere il fatto, ma detta la verità. In questa cornice, la giustizia perde la sua funzione per trasformarsi in una narrazione soggettiva, dove il carisma o il ruolo sociale di chi racconta contano più della certezza della prova. Potere e retorica le armi che usa.

Il dubbio, principio cardine del diritto penale, è scartato a priori in quanto segno di debolezza. Se il potere produce sapere e il sapere produce potere, scriveva Michel Foucault è incontestabile che chi controlla la narrazione ha in mano il giudizio. Il rischio? Che la verità processuale divenga una verità parallela, costruita nei salotti televisivi o nei podcast a episodi, spesso con l’unico obiettivo di generare attenzione, consenso di parte o visibilità personale non a favore della verità.

Quando il sospetto vale più del fatto, caso emblematico Enzo Tortora, la giustizia è travolta dalla forza dell’accusa mediatica e la condanna viene ancora prima del giudizio. La “volontà” ‒ che in questi casi non pecca di solitudine ‒ di costruire un colpevole simbolico è diventata risorsa per il vero colpevole. E oggi?

Siamo verso una propensione a dare forse eccessiva attenzione a una verità a comando, costruita sulla base di “rivelazioni” che ignorano i vincoli del diritto e i limiti della prova, che porta a un processo millantatorio a sua volta strumento di dominio narrativo. Non si cerca in questa situazione la giustizia, ma si usa la giustizia per confermare un’identità, un’opinione, un potere.

La giustizia cessa pertanto di essere amministrata in nome del popolo, e diviene spettacolo per il popolo, pensiero di Piero Calamandrei che appare oltremodo pertinente. Invece, assistiamo a un’inversione di rotta: l’aula si svuota, il palcoscenico si riempie. E così la millantocrazia guadagna terreno nella giudiziaria imponendosi sopra le garanzie costituzionali. Il passaggio dal processo accusatorio al processo millantatorio non è un semplice slittamento tecnico: è un rischio culturale, una deriva democratica.

Spetta non solo a chi opera nel diritto, ma a tutti, una chiamata in causa collettiva per dare vita a una responsabilità collettiva, per un impegno sociale reale che rifiuti il millantare specie nel campo del diritto penale in quanto va a toccare uno dei diritti fondamentali della persona: la libertà.

Bisogna resistere al fascino del racconto assoluto e pretendere un ritorno alla verifica, alla prova, al principio del dubbio e principalmente, in un mondo, dove tutti parlano, chi sa ascoltare il silenzio del dubbio si senta un vero cavaliere crociato nel difendere la libertà personale contro l’ingiusta detenzione.


di Antonio Nastasio