mercoledì 16 luglio 2025
La condanna definitiva a sedici anni di reclusione comminata nel 2015 a carico di Alberto Stasi sembrava aver definitivamente chiuso lo spinoso caso di Garlasco. E invece, ancora oggi, dieci anni esatti dopo l’emissione della discussa sentenza di condanna all’indirizzo di Stasi, quella verità giudiziaria continua a non convincere del tutto. Del resto, non esistono prove dirette e inconfutabili a carico del condannato, né l’arma del delitto, né tracce biologiche incontestabili riscontrate sul corpo di Chiara Poggi o nella scena del crimine. I comportamenti di Alberto Stasi saranno anche stati giudicati “freddi” e “distaccati”, e le sue abitudini “ambigue”, ma se è vero che simili condotte possono anche instillare qualche dubbio nella mente degli investigatori, è altrettanto vero che né la freddezza né l’ambiguità possono rappresentare delle inoppugnabili prove di colpevolezza. Sulla base di tali presupposti, e in seguito ai recenti sviluppi che potrebbero clamorosamente rimettere in discussione tutto l’impianto accusatorio, vale la pena porsi alcuni leciti interrogativi: e se non fosse Alberto Stasi il colpevole dell’efferato delitto?
E se inquirenti, media e opinione pubblica, in tutti questi anni, avessero sempre guardato dalla parte sbagliata, additando come colpevole del delitto un soggetto in realtà innocente? Difficile poterlo stabilire con certezza, ma il sospetto che le cose possano effettivamente essere andate in maniera diversa rispetto alla verità giudiziaria emersa dai processi oggi sorge spontaneo. E se così fosse, chi è allora il vero responsabile del delitto di Garlasco? Magari quell’Andrea Sempio, grande amico di Marco Poggi, fratello di Chiara, come qualcuno ardentemente sostiene? Oppure anche quest’ultimo rischia d’interpretare, in questa triste storia, il medesimo ruolo giocato fino ad oggi da Stasi, e finire anch’egli per venire additato come responsabile di un orribile crimine pur essendone estraneo? Il rischio di tirare dentro ancora una volta un innocente è assai concreto e va debitamente soppesato e possibilmente scongiurato.
Come pure appare doveroso che, a questo punto arrivati, si possano prendere in considerazione anche altre piste fino ad oggi mai battute. E non certamente nell’intento di insinuare il sospetto in soggetti fino ad ora mai coinvolti nelle tragiche vicende di Garlasco, bensì nel tentativo di dare maggiore spazio alla logica, cosa raramente accaduta in questi primi diciotto anni di indagini. In modo particolare, c’è una via che nessuno, o quasi, ha mai osato o anche solo pensato di poter percorrere fino in fondo. Proviamo a farlo adesso, chiedendoci: e se il vero responsabile si trovasse in realtà dalla parte opposta? Se si trattasse di un soggetto parte dell’apparato investigativo, non necessariamente con ruoli di prim’ordine, ma anche con posizioni marginali o periferiche? Certo, l’ipotesi criminologica in questione risulta assai inquietante e alquanto estrema, ma merita almeno qualche semplice riflessione, anche perché, a ben vedere, risulta assolutamente comprensibile che chiunque si trovi a dover condurre delle indagini sia automaticamente portato ad escludere sé stesso. Pensiamoci bene: un soggetto appartenente alla categoria sopra citata saprebbe certamente come muoversi, saprebbe molto bene cosa fare e, soprattutto, cosa non fare al fine di non farsi notare e non lasciare tracce sulla scena del crimine.
Immaginiamo di tornare indietro a quella mattina: se effettivamente fosse stato il soggetto in questione ad agire, nessuno lo avrebbe fermato, difficilmente costui avrebbe mai potuto generare alcun tipo di sospetto negli inquirenti. E poi, il delitto: rapido, chirurgico, “ordinato”, “pulito”, probabilmente troppo per un “profano”: nessun’arma, tracce quasi inesistenti, scena incredibilmente silenziosa, niente urla, niente caos. Soprattutto se dovesse trovare riscontro la tesi secondo cui Chiara Poggi avrebbe lottato contro il suo assassino, come attesterebbe quel Dna rinvenuto sotto le unghie della povera vittima, attribuibile ad un uomo mai identificato, e, da ultimo, anche nella sua bocca, dopo le recenti analisi ripetute sulle garze utilizzate in sede autoptica per prelevare materiale dal palato, dalla lingua e dalle pareti del cavo orale della giovane, che confermerebbero, tra l’altro, la presenza sulla scena di un profilo genetico maschile cosiddetto “ignoto”, non riconducibile né a Stasi, né tantomeno a Sempio.
E, infine, il movente: quello attribuito ad Alberto Stasi è sempre stato debole, a volte inconsistente, quasi “forzato”, come a voler a tutti i costi assicurare un colpevole alla giustizia in tempi rapidi e, magari, allontanare ogni sospetto dal vero responsabile del delitto. Tanto più che nessuno, almeno fino ad oggi, si è mai sognato di concentrare le indagini su altre possibili figure maschili vicine in qualche modo a Chiara nel periodo immediatamente precedente il delitto. Nessuno che si sia mai posto una domanda scomoda, ma al contempo anche alquanto semplice: è possibile che, a un certo punto della sua esistenza, nella vita di Chiara sia entrato un uomo di cui ella non ha mai raccontato, e rispetto a cui nessuno in questi diciotto anni ha mai pensato o voluto indagare?
di Salvatore Di Bartolo