venerdì 11 luglio 2025
C’è qualcosa che accade spesso, quasi inevitabilmente: un giurista prende parola su un fatto di cronaca, un dibattito pubblico, una situazione quotidiana e subito si crea uno scarto. Chi lo ascolta, che non vive immerso nel diritto, spesso lo percepisce come freddo, distante, forse persino arrogante. Eppure, ciò che separa il giurista dal senso comune non è il disinteresse, ma una forma diversa — più strutturata — di pensiero. Una geometria della mente, appunto.
Pensiero comune: morale, esperienza, immediatezza
Nel vivere quotidiano, i giudizi sono rapidi. La mente umana cerca scorciatoie: si affida all’intuizione, al vissuto personale, ai valori condivisi. Si dice “è giusto” o “non è giusto” senza porsi il problema di cosa significhi, giuridicamente, “giusto”.
Questo modo di pensare non è sbagliato: è naturale, utile, persino necessario per la sopravvivenza sociale. Tuttavia, non è strutturato per affrontare la complessità normativa, né per decifrare le logiche sottostanti alle decisioni giuridiche.
Ecco perché, ad esempio, di fronte a una sentenza che assolve qualcuno per “vizio totale di mente”, il pensiero comune reagisce con frustrazione: “Ma è colpevole!”. Il giurista, invece, parte da un’altra domanda: cosa significa colpevole per l’ordinamento?
Pensiero giuridico: struttura, astrazione, metodo
Il pensiero giuridico si forma per via lenta, attraverso anni di studio, esercizio e confronto. Non è un’opinione, ma un metodo. Chi fa diritto impara a pensare per categorie, a riconoscere le forme dietro i fatti, a isolare i concetti rilevanti da quelli emotivamente carichi ma giuridicamente irrilevanti.
Per un giurista, un problema non si risolve dicendo “secondo me”, ma chiedendosi: “Qual è la fattispecie normativa coinvolta?”; “In che modo la dottrina l’ha letta e reinterpretata?”; “Come la giurisprudenza ha applicato quella regola in casi simili?”; “Quali conseguenze sistemiche comporta una certa scelta interpretativa?”.
Questa forma mentis — geometrica, analitica, coerente — è ciò che rende difficile la comunicazione tra chi “fa diritto” e chi no. Non perché il diritto sia elitario, ma perché segue un percorso razionale che ha regole proprie, come la matematica o la logica formale.
Non si nasce giuristi. Lo si diventa. E questo “diventare” implica molto più che leggere articoli di codice. Lo studio del diritto è un esercizio costante di astrazione, interpretazione e sistematizzazione. È imparare che ogni parola può avere un peso tecnico, che ogni regola può generare eccezioni, che ogni caso concreto ha mille sfumature.
È anche imparare il valore del dubbio: il giurista autentico è colui che sa che la prima risposta è quasi sempre sbagliata, o perlomeno incompleta. Per questo motivo, egli non “dice la legge”, ma la costruisce nel ragionamento, pezzo per pezzo, fino a trovare una soluzione che non sia solo conforme, ma anche coerente.
Paradossalmente, più il diritto funziona, meno si nota. È la struttura invisibile che tiene insieme la convivenza civile, la cornice che permette ai conflitti di non esplodere. Ma quando si verifica uno scontro — un licenziamento, un incidente, un processo — allora il diritto emerge, e con esso la difficoltà di comprenderlo.
In quei momenti, il pensiero comune cerca risposte semplici. Il giurista no. Cerca le condizioni, i limiti, le garanzie. E spesso si scontra con l’impazienza di chi vorrebbe una giustizia immediata, intuitiva, priva di mediazioni. Ma il diritto non è solo ciò che appare giusto: è ciò che è regolato in modo giusto.
La distanza tra il giurista e la società non è inevitabile. Ma va riconosciuta per poter essere superata. Il giurista non è un tecnico senza cuore, ma un architetto del ragionamento normativo. Ha bisogno di tempo per parlare, perché ogni parola, per lui, ha un peso specifico.
Capire il diritto significa, anche, accettare che la giustizia non può sempre essere ridotta a ciò che “ci sembra giusto”. Serve metodo, serve forma, serve una geometria: quella della mente giuridica.
E in questo sta il senso profondo dello studio giuridico: non dare risposte preconfezionate, ma insegnare a pensare in modo strutturato, rigoroso, razionale, senza dimenticare mai il fine ultimo: costruire un mondo più giusto, ma senza improvvisazioni.
di Camilla Malatino