mercoledì 14 maggio 2025
L’esodo perpetuo dell’uomo contemporaneo
Nel primo trimestre del 2025 gli italiani hanno richiesto oltre 100 milioni di euro in prestiti personali per finanziare viaggi e vacanze, segnando un aumento del 18 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024. L’identikit del debitore tipo è chiaro: uomo (nel 72 per cento dei casi), con un’età media di 37 anni e una richiesta di circa 5.700 euro. Spiccano in particolare i giovani sotto i 30 anni, che rappresentano il 33 per cento delle domande. Questo fenomeno è stato ribattezzato “effetto Instagram”: la pressione sociale a condividere viaggi da sogno e stili di vita impeccabili sui social sembra spingere sempre più persone a finanziare le proprie vacanze con il credito al consumo, spesso senza una reale sostenibilità economica. Il lieve calo dei tassi d’interesse ha contribuito a rendere più accessibili questi prestiti, ma si rischia il sovraindebitamento, soprattutto tra chi, pur di mantenere un’apparenza, sacrifica l’equilibrio economico personale. Questa tendenza moderna rappresenta una svolta culturale profonda. Per lunghi decenni, e in particolare nel Dopoguerra, la vacanza è stata considerata un lusso, spesso inaccessibile alla maggior parte delle famiglie. Le ferie retribuite, introdotte gradualmente in Italia a partire dagli anni Trenta e poi estese nel Dopoguerra, erano vissute come un’occasione straordinaria, riservata per lo più a chi poteva permettersi viaggi in località balneari o termali.
Per la maggioranza degli italiani, la vacanza era sinonimo di ritorno al paese d’origine o, semplicemente, di riposo a casa. È solo con il boom economico degli anni Sessanta che il turismo di massa comincia a diventare più diffuso, pur restando una voce di spesa su cui si poteva tranquillamente risparmiare. L’idea che una vacanza potesse essere necessaria – al punto da giustificare l’accesso al credito – sarebbe apparsa allora paradossale. Oggi invece, per molte persone, la vacanza non è più un lusso, ma un diritto simbolico, quasi un dovere sociale, amplificato dalla logica dei social network e dalla continua esposizione a modelli di consumo estetizzati. Questo mutamento racconta molto della nostra epoca. Se un tempo ci si indebitava per comprare una casa, un’auto o per affrontare spese impreviste, oggi ci si indebita per esperienze effimere, ma socialmente “visibili”. La vacanza, da esperienza privata e, in fondo, marginale rispetto ai bisogni primari, è diventata uno status da esibire, un elemento identitario. In questo passaggio, si rivela una nuova forma di fragilità: quella di una società che confonde la felicità con la performance, e l’autorealizzazione con il consumo. A ben vedere, il dato economico sui prestiti per le vacanze rivela molto più di una moda passeggera o di una generica fragilità finanziaria. Indica una trasformazione più profonda, che riguarda il modo in cui l’uomo contemporaneo abita il tempo e lo spazio. La casa, che per secoli è stata il simbolo della stabilità e del radicamento – il luogo dove l’essere umano costruiva il proprio mondo – oggi viene progressivamente abbandonata, svalutata, sostituita dall’esperienza mobile, temporanea, intercambiabile. L’orizzonte del viaggio continuo, dell’altrove da raggiungere, diventa lo sfondo simbolico di una vita che non vuole più sostare in nessun luogo, né fisico né mentale.
È il riflesso di una convinzione più radicale: quella secondo cui non esiste alcuna verità stabile, alcun fondamento che possa reggere oltre il flusso incessante del divenire. L’uomo, persuaso che ogni stabilità sia illusoria, si adatta a questa visione accogliendo nella propria vita il principio della precarietà, fino a interiorizzarlo come forma desiderabile. Non è solo una fuga dalla casa, ma dalla permanenza stessa, dall’idea che qualcosa possa restare identico a sé, e quindi degno di essere abitato nel tempo. Così, ciò che un tempo era il segno dell’instabilità — il non avere un luogo, il continuo muoversi, il non fermarsi mai — diventa oggi un modello aspirazionale, un codice sociale, una prova di libertà. Eppure, questa libertà così intesa non libera. “Homo viator”, l’uomo viandante della tradizione medievale, cercava un senso nel suo pellegrinaggio; l’uomo contemporaneo, invece, viaggia per sfuggire alla ricerca stessa. L’ansia di movimento, la necessità di mostrarsi altrove, in viaggio, sempre oltre, rivela un’inquietudine più profonda: l’incapacità di stare. Di stare in un luogo, in un’identità, in una verità. L’uomo contemporaneo, convinto che nulla sia vero per sempre, smette di cercare ciò che dura e si consegna interamente al presente, consumandolo nel desiderio continuo di esperienze che possano giustificare la propria esistenza di fronte agli altri.
La vacanza, allora, non è più evasione temporanea, ma condizione esistenziale. Il viaggio non è più pausa, ma metafora costante dell’essere: si è, solo nella misura in cui ci si muove. Non si cerca più un luogo da abitare, ma un’immagine da mostrare. Così, mentre l’Occidente smantella lentamente l’idea stessa di verità, l’uomo finisce per tradurre questo smantellamento in stile di vita. Non abita più il mondo: lo attraversa. Non costruisce più senso: lo rincorre, di viaggio in viaggio, di rata in rata. E forse, in questo nomadismo perpetuo finanziato a credito, si nasconde una paradossale nostalgia: quella di un luogo – non necessariamente fisico – in cui poter finalmente fermarsi, senza dover dimostrare nulla a nessuno. Un luogo che, per molti, resta inaccessibile come una terra promessa, mentre le notifiche dello smartphone continuano a ricordare che un’altra rata è in scadenza, un altro viaggio attende, un’altra immagine deve essere condivisa. “Quod non est in actis, non est in mundo” – “Ciò che non è documentato, non esiste”. Un principio giuridico che oggi, nell’era dei social, ha trovato una sua inquietante resurrezione.
di Claudio Amicantonio