Fiori nella neve (seconda parte)

venerdì 1 agosto 2025


Alcuni anni fa, la Rai fu interessata a realizzare una serie sulla storia d’amore e di morte tra Nella Masutti ed Emilio Guarnaschelli. La vicenda, peraltro vera, verissima, si staglia come storia d’amore assai più commovente ed emozionante del rapporto tra Eloisa e Abelardo. Basti pensare che Nella, non sapendo della fucilazione di Emilio nel 1937 – glielo comunicai con imbarazzo proprio io – continuò a cercarlo per cinquant'anni. Presentai alla Rai il soggetto “Fiori nella neve” tratto dal mio saggio “La tragedia dei comunisti italiani – Le vittime del Pci in Unione sovietica” (Mondadori, Milano 1999). Mi avevano aiutato nella stesura due affermati professionisti come Mario Falcone e Christian Soddu. La Rai, alla fine, adducendo scuse patetiche, non ne fece nulla, pur ammettendo, sottovoce, la straordinaria occasione perduta. “Fiori nella neve” non poteva essere realizzato semplicemente perché delineava, di contorno all’amore dei due ragazzi, l’orrore del comunismo sovietico e la diretta partecipazione dei dirigenti del PCd’I, a cominciare da Palmiro Togliatti, nel perseguire comunisti, anarchici e socialisti italiani giunti in Urss per portare ognuno di loro la loro piccola pietra nella edificazione della società giusta. Da rimarcare che il mio saggio si fonda sulla documentazione ritrovata negli archivi di Mosca di Via Ilinka, ergo si tratta di crimini raccontati e giustificati dagli stessi carnefici. Insomma, anche il soggetto riporta non opinioni ma fatti tremendi ed inconfutabili. Proprio la caratteristica della veridicità rese inopportuna, improponibile, scandalosa la produzione di “Fiori nella neve” ad opera della tv pubblica dominata dagli eredi dei carnefici. La cosa mi parve strana, perché a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi, forte, per giunta, di una maggioranza schiacciante. Poi, compresi che il centrodestra di Silvio era imbattibile nella gara elettorale, eppure sistematicamente incapace, dopo aver vinto le elezioni, di andare davvero al potere. Oggi, con un altro centrodestra al governo, potrebbe cambiare qualcosa? Al momento sono scettico, visto che ho fatto navigare “Fiori nella neve” in alcuni golfi governativi, senza ricevere neppure un cenno di riscontro. Certo, leggere costa fatica, ma considerando le schifezze che ci offrono televisioni e cinematografi, spero sempre che esista ancora qualcuno capace di comprendere un testo scritto. In nome di codesta speranza, ho chiesto al direttore Andrea Mancia di pubblicare a puntate la splendida storia d’amore e di lacrime tra Nella ed Emilio, due giovani comunisti, che, decenni prima di altri, compresero a loro spese quanto la loro ideologia fosse sbagliata, anzi, riprendendo il lessico di Emilio, criminale.

Fiori nella neve (Una storia vera) – soggetto di Mario Falcone, Giancarlo Lehner, Christian Soddu.

È pomeriggio, nell’ufficio di Poliakov, Pilar si riaggancia il reggicalze, mentre il capitano, ancora disteso sul divano, con la cravatta lenta e la camicia sbottonata, si accende una sigaretta. L’argentina finisce di vestirsi, s’infila il cappotto e s’accosta a uno specchio appeso alla parete. Dopo essersi rassettata un po’ i capelli, si rivolge all’uomo: «Allora siamo d’accordo?». Poliakov annuisce, avvolto nel fumo di sigaretta.

Due giorni dopo, i passi di Nella e di un militare che l’accompagna risuonano nel lungo corridoio della prigione. La ragazza viene introdotta in una stanza dove ad attenderla, sorvegliato dai due aguzzini, c’è Emilio. Non appena la vede, il giovane scatta in piedi e l’abbraccia con tutte le forze che gli sono rimaste, emettendo un grido soffocato. Emilio è rasato di fresco, ma ha ancora il volto gonfio per le percosse; indossa un vestito di velluto senza camicia, e un foulard rosso intorno alla vita a sostenere i calzoni. Tenendole la mano, e sorridendo tenero, Emilio riesce a dire a Nella solo che gli hanno inflitto una condanna di tre anni da scontare in esilio a Pinega, ai confini del Circolo Polare Artico. Nella si avvinghia a quella mano, ancora più forte: «Non preoccuparti amore mio. Saremo felici anche in Siberia».

...Dal volto commosso di Emilio...

...A una slitta trainata da due cavalli che corre sulla tundra gelata. A bordo della slitta, scortato da tre “guardie rosse”, Emilio viene condotto verso la destinazione del suo esilio. Durante il viaggio, si guarda intorno intirizzito: il gelo aumenta man mano che si sale verso nord, e la neve non concede tregua allo sguardo...

È sera. Scortato dalle guardie, Emilio entra in una isba di campagna dove trascorrerà la notte: l’interno è lurido, tutto è minuscolo. L’unico segno di vita è un gatto spelacchiato. La vecchia che vive nella baracca serve a tutti un bicchiere d’acqua calda col samovar. Emilio rifiuta: è da quando è partito che beve acqua calda. Il capo delle guardie lo autorizza – nel nome del Potere Sovietico – a fare della sua razione quel che vuole. Emilio non esita, e inizia a farsi la barba: un gesto irriverente, in realtà di cura verso di sé, che resiste all’abbruttimento generale imposto da quello stesso Potere. Durante la notte, mentre le guardie ronfano, Emilio, rannicchiato nel giaciglio troppo piccolo per lui, non riesce a dormire. Si alza, va alla minuscola finestrella e attraverso il vetro fissa quel deserto di ghiaccio davanti a sé. Fuori c’è la slitta, con i cavalli aggiogati: Emilio fa quasi la mossa di uscire, ma poi si ferma, scuotendo la testa sconsolato: dove mai potrebbe andare? In quel momento una mano si posa sulla sua spalla. È il capo delle guardie, che con un gesto gli indica di tornare a letto.

Dopo un altro giorno di viaggio, la slitta fa tappa ad Arcangelo, una località poco distante da Pinega. Emilio viene tradotto nel carcere locale dove trascorrerà la notte. Divide la cella, invasa dagli scarafaggi e dalle cimici, con un altro detenuto, di età indefinibile. Ha lo sguardo invasato, e comincia a interrogarlo: «Perché sei qui?». Emilio gli racconta la sua storia. «Be’ allora sono più fortunato di te», commenta l’altro. «Uscirò presto di qui...». «E quando?». «Nel 1945», risponde, e scoppia in una risata fragorosa in cui Emilio riconosce il timbro della follia. Poco più tardi, mentre il suo compagno di cella dorme raggomitolato in un angolo, Emilio legge le numerosissime iscrizioni di cui sono tappezzati i muri. Alla fine, come piegandosi anche lui a quella macabra testimonianza di vite spezzate, raccoglie un pezzetto di intonaco e lascia come tutti la traccia del suo passaggio.

Ancora un giorno di viaggio, ed Emilio giunge a Pinega. Lo sbattono giù dalla slitta come un pacco, scaricandolo di fronte alla sede della Ghepeù. «Siete libero!», così lo accoglie il capitano Sasha Voronjn, un trentenne corpulento e dallo sguardo freddo come il ghiaccio, comandante della sezione locale della Polizia Politica. Emilio si guarda intorno: «Come libero?!». Non ha un copeco in tasca, fuori ci sono 35 gradi sotto zero, e non conosce il luogo... Voronjn lo congeda bruscamente dopo aver gettato sul tavolo con fare sprezzante i cinque rubli del suo “stipendio” mensile da esiliato.

Dopo aver vagato un po’ nello squallido villaggio, costituito da poche baracche ammassate ai due lati dell’unica strada, Emilio incontra un vecchio che, intuendo subito la sua situazione, lo porta a casa sua sperando di guadagnarci qualcosa. All’interno, nel buio rischiarato da un lumicino, il ragazzo intravede una vecchia moribonda che si lamenta, con i topi che le scivolano tutt’intorno. Sconvolto, recupera la sua valigia e scappa fuori, dove nel frattempo ha ripreso a nevicare... finisce per addentrarsi nella foresta, e si addormenta ai piedi di un albero, ricoperto da un manto di neve.

Nelle prime settimane trascorse a Pinega, Emilio deve fare i conti con un freddo e una fame per lui fino ad allora sconosciuti. Per rimediare del cibo, Emilio non ha che da vendere agli agenti della Ghepeù le pochissime cose di qualche valore che gli son rimaste: una penna stilografica, un fazzoletto ricamato, un portafogli, un pettine... Ciò che ricava non è affatto sufficiente a placare i morsi della fame. Un giorno dei tanti, al termine di uno di questi “baratti”, mentre sta per andare via, Emilio viene avvicinato da Voronjn. Il capitano lo minaccia: ora basta! Deve ricordarsi che è lì per i crimini che ha commesso contro lo Stato Sovietico, quindi la prossima volta che lo vedrà di nuovo “tentare di corrompere” i suoi uomini, lo farà arrestare. Emilio tenta di far valere le sue ragioni: come altro potrebbe fare a procurarsi qualcosa da mangiare? In quel posto non c’è assolutamente niente... Voronjn gli sibila in faccia la risposta, gelida come i suoi occhi: «Arrangiati!».

Un pomeriggio, mentre vaga per il villaggio alla ricerca di cibo, funestato dai crampi allo stomaco, Emilio s’imbatte in un uomo vistosamente ubriaco. Questi, non appena scopre che il ragazzo è italiano, lo invita a casa sua. L’uomo afferma di essere un “tecnico” e di aver lavorato anni prima in Italia. In casa, Emilio nota immediatamente una pentola nella quale stanno bollendo delle patate. L’uomo si siede e afferra una bottiglia di vodka, e offre una patata al suo ospite. Ubriaco perso, vuole che Emilio gli parli dell’Italia, del sole che ha conosciuto laggiù. Il ragazzo gli dà corda, chiamandolo “ingegnere”, e nel frattempo gli svuota la pentola divorando tutte le patate.

Intanto, a Mosca, Nella si dà da fare per cercare di aiutarlo: con l’aiuto della madre e all’insaputa del padre mette insieme un po’ di cibo e vestiti, e confeziona un pacco, che spedisce senza avere la certezza che Emilio lo riceverà.

Un giorno, mentre sta studiando una mappa della Russia, viene sorpresa dal padre che, intuendo le sue intenzioni, le strappa la cartina dalle mani, la riduce in mille pezzi e poi la schiaffeggia pesantemente rivelandole che la sua condotta lo sta mettendo in pericolo. Dalle parole del padre, Nella intuisce che proprio lui è stato uno di quelli che hanno denunciato Emilio. In un impeto di rabbia lo accusa di essere una spia. L’uomo risponde sprezzante che Emilio è un “nemico del popolo” e andava punito.

È mattina. Emilio sta uscendo dalla baracca dove da tempo si è sistemato. Va nel bosco a fare legna. Mentre torna con le braccia cariche di ramoscelli sente degli spari. Si volta e si dirige in fretta verso un gruppetto di persone all’ingresso del villaggio, che ridono e incitano un uomo, col fucile puntato: «Sparagli, sparagli!». Emilio nota un cane lupo riverso sulla neve macchiata di sangue, e un altro cane, bianco, terrorizzato, che ringhia eppure non scappa. L’uomo col fucile è pronto a far fuoco ma Emilio getta per terra la legna e con una mano sposta la canna dell’arma: «No!», grida. Convince l’uomo a risparmiare l’animale. Dopodiché, tra gli sguardi perplessi di tutti, si avvicina lentamente al cane, che teso e poi più tranquillo, uggiolando, finisce per leccargli una mano.

Intanto, a Mosca, nonostante le botte e l’ostilità del padre, Nella continua a preparare il suo viaggio per raggiungere Emilio. Si vende un paio di orecchini, un anello, e le scarpe che il padre le aveva regalato per il compleanno. Con il ricavato compra il biglietto ferroviario per Arcangelo.

È mattina. Come fa ormai da giorni, Emilio saggia con un pezzo di legno la consistenza della lastra di ghiaccio che ricopre il fiume Pinega e intanto volge il suo sguardo all’orizzonte da dove arriverà il battello non appena il fiume sarà di nuovo navigabile. Dopo una serie di colpi, finalmente la crosta cede. Il sorriso appare sulla bocca del ragazzo, mentre Celiuskijn – il nome che Emilio ha dato al cane in onore di un eroe sovietico – abbaia e scodinzola eccitato. Emilio guarda il cane, raggiante. Poi volge lo sguardo al fiume: «Sta arrivando... La mia Nella sta arrivando».

Nello stesso momento, a centinaia di chilometri di distanza, Nella, approfittando dell’assenza dei genitori, scappa da casa e raggiunge la stazione. Sale sul treno. Ma non appena il convoglio si mette in movimento, dalla banchina sente la voce della madre che la chiama. Nella si affaccia al finestrino. La donna, con il volto rigato di lacrime, la implora di scendere, ma la ragazzina scuote la testa e pur gridando che le vuole bene, per non sentirla più chiude il finestrino.

(*) Sullo sguardo commosso di Nella, che con la mano saluta la madre, ha fine il primo episodio.

Secondo episodio

È la notte del 21 giugno del 1935. All’interno della sua isba Emilio dorme. Celiuskijn è accoccolato ai suoi piedi, quando improvvisamente drizza le orecchie e inizia a guaire inquieto. Si avvicina al ragazzo e con la bocca lo tira per un braccio. Emilio si sveglia e in quel momento sente bussare alla porta. Sul suo volto appare un velo di preoccupazione. Chi può essere? Col terrore di trovarsi di fronte gli sgherri di Voronjn, si fa forza e alla fine si decide e va alla porta, con il cane sempre al suo fianco. Non appena la apre si ritrova di fronte Nella, stremata da una settimana di viaggio, infagottata alla meno peggio per ripararsi dal freddo della notte. I due si guardano per qualche istante senza che nessuno riesca a dire niente, con gli occhi colmi di lacrime, fino a che è Nella a rompere il silenzio: «Ciao, amore mio...». Emilio non regge all’emozione e ha un mancamento, ma subito si riprende e l’abbraccia mentre Celiuskijn comincia ad abbaiare facendo le feste alla ragazza come se la riconoscesse.

(*) Sul volto felice di Nella ha fine il flashback.

Ora anche la vecchia Nella arriva a Pinega. Scesa dal battello si guarda intorno e vede che il posto non è cambiato granché. Ritrova ancora intatta la capanna in cui visse con Emilio. Entra; su un tavolo ci sono le due gavette e in un angolo una sedia rosicchiata da Celiuskijn. La donna si aggira per la stanza in preda ai ricordi, dopodiché si siede e prende in mano un pezzo di legno – raffigurante un cane – che Emilio aveva intagliato tanti anni fa. In quel momento bussano alla porta. Nella, stupita, apre e vede due signore malmesse e solcate da rughe profonde. Senza nemmeno avere il tempo di aprire bocca, le due donne l’abbracciano. Ma come; non le riconosce: sono Irina e Olga, le due bambine a cui Nella dedicò tanta attenzione. Ora è lei, commossa, ad abbracciarle. Sul suo volto rigato di lacrime riparte il ricordo...

 ...Nella è all’interno dell’isba con le piccole Irina e Olga. Sta insegnando loro a scrivere e a leggere. Arriva Emilio che depone sul tavolo ciò che ha rimediato quella mattina: un pezzo di pane nero, un pugno di miglio e una patata. Gli occhi delle due bambine si illuminano. Emilio e Nella si guardano, annuiscono, poi la ragazza si rivolge alle due sorelline invitandole a restare a “pranzo” con loro.

Qualche giorno dopo. È pomeriggio. Emilio e altri due esiliati si avvicinano furtivi a una vecchia chiesa sconsacrata. Dopo aver aggirato l’ingresso sorvegliato da due guardie armate, raggiungono il retro e bussano a una finestrella difesa da inferriate. Un istante dopo una mano scarna si allunga dall’interno. Emilio e i suoi compagni gli porgono qualcosa da mangiare. La voce di un uomo risponde «grazie» in polacco.

Ora è giorno. Emilio e Nella stanno facendo l’amore. A un tratto, il silenzio che avvolge il villaggio di Pinega è rotto da urla disumane. I due scattano, si alzano mentre Celiuskijn comincia ad abbaiare nervosamente. Si vestono ed escono fuori. Ma ciò che vedono li inchioda sulla soglia dell’isba. I polacchi dopo due settimane di prigionia e digiuno all’interno della chiesa sono riusciti a forzare la porta, neutralizzare le guardie, e ora si disperdono come bestie fameliche sul villaggio, addentando tutto ciò che trovano, assaltando case e dissotterrando negli orti le patate appena seminate. Molti abitanti del villaggio fuggono in preda al terrore.

Sentendo le grida, Voronjn va alla finestra del suo ufficio, dopodiché, senza fare una piega, afferra il suo fucile, prende pazientemente la mira e fa fuoco sui polacchi abbattendoli uno a uno come selvaggina, mentre i suoi uomini si precipitano fuori per partecipare a quel terribile tiro al bersaglio. È un massacro, il sangue inzuppa le strade del villaggio. Agli agenti si uniscono alcuni abitanti di Pinega, che finiscono quei poveri cristi a colpi di bastone. Nella ed Emilio sono sgomenti, impotenti, incapaci di muoversi. La ragazza vorrebbe intervenire, urla, ma Emilio le tappa la bocca e di forza la riporta in casa barricandosi dentro.

È sera. Mentre Nella sta facendo ai ferri una maglia per Emilio, il ragazzo aiutandosi con un mozzicone di matita sta scrivendo al fratello Mario, utilizzando gli spazi bianchi di un foglio di giornale. «...È stato uno spettacolo orribile... Sono morti tutti, a decine, compresi molte donne e bambini... La neve si è tinta di rosso... Ho visto uomini trasformarsi in bestie e compagni nella mia stessa situazione trasformarsi in assassini... Io non so come faccio a resistere. Se non ci fosse Nellina, mi sarei già dato la morte... E pensare che se solo ritrattassi tutto potrei ritornare a Mosca, ma non ho nulla da ritrattare... Io non voglio pietà, non sono un mendicante, ma un uomo e non mi piegherò mai davanti a nessun Dio, nemmeno un Dio rosso. Se puoi, caro fratello, mandaci qualcosa da mangiare... Qualunque cosa che possa alleviare i morsi di questa fame feroce. E della carta, o non potrò più scriverti. Chiudo, trovando solo la forza per dire a te e agli altri l’ultima, atroce verità: compagni ci siamo sbagliati, coraggio!». Emilio imbusta la lettera. In quel momento arriva Nella che gli porge un bicchiere d’acqua calda. Per quella sera, sarà la loro cena. Emilio la beve, poi invita la ragazza a sedersi sulle sue ginocchia e comincia a canticchiarle una canzone d’amore.

È mattina. Sotto una fitta nevicata e un cielo plumbeo, Emilio, pur sofferente, spacca la legna nel giardino di fronte a una casa appena più grande e decorosa rispetto alle baracche circostanti. Nel pomeriggio, dopo ore e ore di duro lavoro, bussa alla porta. Apre una donna. Emilio le comunica che ha finito. Quella gli dice d’aspettare, scompare dentro per tornare subito dopo con due patate che il ragazzo avvolge nel suo fazzoletto. Tornando a casa, Emilio s’imbatte nella drammatica scena dei genitori di Irina e Olga che vengono portati via dalle guardie e caricati su una slitta, che parte per una destinazione ignota. Le bambine piangono disperate: ora sono rimaste sole. Emilio le porta a casa sua e le affida a Nella.

A sera, nel villaggio si tiene una riunione tra i deportati per decidere chi e come dovrà prendersi cura delle due bambine. Alla fine, la scelta migliore è quella che vedrà l’intera comunità degli esiliati politici occuparsi di Irina e Olga. A turno le bambine saranno ospitate in ognuna delle baracche e lavoreranno per contribuire al loro sostentamento.

 Due settimane dopo, Emilio entra nella sede della Ghepeù per ritirare il pacco che gli è appena arrivato dall’Italia. Ma quando la guardia glielo consegna, il ragazzo si rende conto che è già stato aperto e svuotato di tutti i generi alimentari, anche dei mitici dadi da brodo Liebig che aspettava con particolare ansia. È rimasta dentro della carta da scrivere, dei vecchi indumenti e un paio di scarpe. Emilio va a protestare coraggiosamente da Voronjn: vuole delle spiegazioni, chiede di sapere che fine abbia fatto la roba da mangiare... Il capitano gli ride in faccia; dopodiché, a un suo cenno, le guardie trascinano fuori Emilio, scaraventandolo di peso sulla neve. Mentre è ancora a terra, sulla soglia della stazione di polizia appare Voronjn. Con lo sguardo fisso su Emilio dà un’ultima boccata alla sua puzzolente sigaretta, quindi, getta la cicca addosso al ragazzo per poi voltarsi con un sorriso di disprezzo e rientrare nel suo ufficio.

Emilio torna a casa affranto, con una brutta tosse, e racconta a Nella l’accaduto, trovando in lei il calore per acquietare la sua rabbia e il senso d’impotenza che lo attanaglia. La ragazza lo ascolta in silenzio, e sempre senza dire una parola lo abbraccia, lo bacia. Poi lo prende per mano e lo porta a letto. Lo spoglia, e insieme al suo uomo si infila sotto le coperte. I due fanno l’amore con foga disperata...

Ora sono trascorse molte ore, ma Emilio e Nella sono ancora a letto. Il giovane racimola un pizzico di mahorka – il tabacco a buon mercato ricavato da pezzi di ramoscelli e foglie. Avvolti nel fumo della sigaretta, stretti l’uno all’altra, parlano dei veri motivi che li hanno condotti in quell’inferno, ma sono d’accordo sul fatto che nel loro amore troveranno l’unica salvezza possibile. Improvvisamente, Nella è scossa da conati di vomito. Si alza, debolissima per la fame. Emilio decide di uscire per trovare qualcosa da mangiare. Rientra poco dopo, con un pugno d’erba selvatica non ancora bruciata dal gelo, raccoglie un po’ di neve nella gavetta e la mette a bollire. Quando l’intruglio è caldo e sta per servirlo a Nella, la ragazza rifiuta; ha inizio una commovente sceneggiata, frutto di un tenero altruismo: lui dichiara di non aver fame, sposta la gavetta verso di lei. Nella, di rimando, accusa una surreale e improvvisa “pesantezza di stomaco” e respinge la ciotola dalla parte di lui: «Mangia tu... devi lavorare...». Ma neppure il digiuno ce la fa a scalfire l’istinto di conservazione... dell’altro. Alla fine si dividono il misero pasto. Mentre Emilio la imbocca teneramente, d’un tratto le chiede: «Mi vuoi sposare?». Un sorriso radioso appare sul volto della ragazzina.

È giorno. Un insolito raggio di sole illumina i volti smagriti ma felici di Nella ed Emilio. I due ragazzi – che hanno affidato il ruolo di damigelle a Irina e Olga – sono al cospetto di un anziano pope, un sacerdote anch’egli deportato. Il rituale è quello ortodosso, cioè cristiano antico, caratterizzato dalla straordinaria “cerimonia delle corone”: i testimoni, due comunisti francesi, tengono sospese delle corone di vimini e foglie intrecciate sulle teste degli sposi, fin quando questi non hanno “coronato” il proprio sogno d’amore nel matrimonio. Alle loro spalle trenta esiliati in ginocchio sul ghiaccio, provenienti un po’ da tutta Europa, assistono commossi all’unione dei due giovani. È un surreale riavvicinamento collettivo alla fede, come a provare che Dio c’è, ci deve pur essere... specialmente a Pinega! Quando il pope conclude il cerimoniale, Emilio e Nella si baciano tra le esclamazioni di gioia e l’applauso dei loro compagni di sventura.

Alcune ore dopo, in una squallida stanzetta della casupola della Ghepeù, Nella ed Emilio si sottopongono al cupo rito civile, officiato da Voronjn, facendosi registrare come marito e moglie.

Quel pomeriggio, il villaggio di Pinega risuona dei canti e delle risate dei due sposi e dei loro invitati. Ferve la festa, un pranzo di nozze costituito da un’unica portata: una gavetta d’acqua calda. Eppure, quella smagrita compagnia di deportati, marcati dal dolore e vestiti dei loro cenci migliori, trova la forza di cantare e ballare, senza tralasciare i lazzi e le battutacce allusive rivolte agli sposi. I deportati russi gridano: «Gor’ko! Gor’ko! Gor’co!», che vuol dire “amaro”: un invito agli sposi perché si bacino, togliendo, appunto, l’amaro di bocca.

Se il matrimonio da un lato cementa ancora di più l’unione tra i due ragazzi, dall’altro non risolve il problema più assillante: quello della fame e della sopravvivenza giornaliera, specie nei giorni in cui devono pensare anche di dare da mangiare alle due sorelline. Nella ed Emilio s’inventato di tutto pur di rimediare da mangiare. E mentre il ragazzo attende ogni volta trepidante l’arrivo del pacco dall’Italia, Nella lascia spesso bigliettini con su scritti i propri desideri infilzati ai rami di un alberello che cura con particolare amore. La ragazzina un tempo solo ghiotta di caramelle è adesso il vero motore della coppia, la colonna portante che dà voglia di vivere, energia e speranza a Emilio e, quando le forze glielo consentono, anche agli altri deportati che hanno imparato presto a volerle bene.

Arriva il Natale del 1935. A Pinega fa un freddo che raggiunge i cinquanta gradi sotto zero, e meno dieci all’interno della baracca. Nonostante ciò, Emilio e Nella sono decisi a festeggiare come meglio possono. In un angolo, sotto l’alberello che Emilio ha addobbato con un logoro fazzoletto rosso, il ragazzo depone un pacchettino avvolto in uno spago. A mezzanotte del venticinque, Nella, curiosa e ansiosa, scarta il dono e fa un salto di gioia abbracciando Emilio quando vede cosa contiene: un pezzetto di pane bianco, il gioiello più prezioso a Pinega. Ma un tozzetto di quel prelibato boccone è già prenotato per il fido Celiuskijn, che ogni notte fa da scaldino a quattro piedi gelati. Mentre fantasticano su come e quando mangeranno quel pezzetto di pane, bussano debolmente alla porta. Emilio va ad aprire: è il pope che con un sorriso li invita ad avvicinarsi e poi li segna sulla fronte benedicendoli e augurando loro «Buon Natale». Nella ed Emilio lo invitano a entrare, ma il sacerdote preferisce finire il giro delle altre baracche prima che il gelo abbia ragione del suo fisico stanco e provato. I due ragazzi restano sulla soglia ad ammirare la figura del vecchio che, curva, si allontana verso l’isba più vicina.

È una fredda mattina di gennaio del 1936. Nonostante il gelo polare, Emilio è fuori a tagliare un po’ di legna e a rimediare qualcosa da mangiare. Nella è sola in casa, distesa a letto quasi senza più forze, debilitata dal digiuno. D’un tratto la porta si spalanca bruscamente e nella stanza, insieme a una folata di vento gelido, irrompe ubriaco un soldato della Ghepeù. Terrorizzata, Nella trova la forza per alzarsi e chiedere all’uomo cosa voglia, ma quello avanza minaccioso biascicando qualche parola incomprensibile e sbottonandosi la patta dei calzoni. Le è già addosso, quando Celiuskijn, proveniente da fuori in compagnia di Irina e Olga, digrignando i denti balza all’interno della stanza azzannando l’intruso a un braccio. Quello si libera con uno strattone e un grido di dolore, e scappa precipitosamente sempre inseguito dal cane sotto lo sguardo divertito degli esiliati e degli abitanti del villaggio, che commentano la scena con una risata che sa di rivincita.

I drammatici effetti della denutrizione fanno ammalare Nella, ora costretta a trascorrere la maggior parte del suo tempo a letto. Emilio la cura con amore, privandosi di quei pochi bocconi che dovrebbero costituire la sua razione giornaliera di cibo. «Non mi vorrai più», gli sussurra Nella con un filo di voce. Emilio, commosso, la stringe a sé. «Ti amo più di prima», la rassicura. Intanto, la voce che la ragazza è gravemente malata fa il giro del villaggio. La giovane è amorevolmente accudita da Irina e Olga. Molti compagni si presentano alla soglia della baracca, dando vita a una spontanea gara di solidarietà. C’è chi porta una patata, chi un pugno di miglio, chi un pezzo di pane nero... Grazie alla loro generosità e all’amore di Emilio, col passare dei giorni Nella si avvia a guarire. Sta già un po’ meglio, ma è ancora molto debole quando un giorno Celiuskijn, dando il suo contributo determinante, si presenta ai piedi del giaciglio della ragazza con uno stinco di renna rubato chissà dove. Emilio, Nella e le due sorelline non credono ai propri occhi. Quella che segue è una grande cena, ottima e abbondante, con brodo di osso e carne, di cui nessuno in quella baracca si ricorda più il sapore.

Il lungo inverno di Pinega ha fine. Con l’arrivo della primavera e del disgelo, la vita riprende e il fiume ridiventa navigabile. Nella si è ripresa del tutto. Emilio riacquista l’entusiasmo e la vitalità di un tempo. Legge, scrive, lavora febbrilmente e nel frattempo è ben contento di tenere la mente sveglia e allenata dando lezioni d’inglese a un gruppetto di compagni, discutendo con loro anche di politica, teatro, e perfino provando ad abbozzare l’idea di una commedia. Insomma, né il freddo, né la fame sono riusciti ad annichilire il suo spirito teso a rivendicare l’insopprimibile nobiltà dell’individuo. La creatività e l’intraprendenza di Emilio si spingono fino a produrre un “miracolo” nel bel mezzo di quel puntino ghiacciato ai confini del mondo. Il “miracolo” si chiama “Bar Italia”: un baretto, poco più di un capanno di legno e frasche che Emilio realizza a mani nude, con l’aiuto entusiasta di Nella che inventa una specie di tè a base di erbe raccolte nel bosco. La miscela sarà l’unica bevanda servita. In men che non si dica, il locale diviene il punto d’incontro dove scambiare quattro chiacchiere tra confinati, ritrovare un po’ di calore umano e un’illusione di civiltà. Ma il bar – esile e straordinario monumento al genio italico – dura poco: soltanto quattro giorni, in quella primavera del 1936.

Una mattina, Voronjn e i suoi uomini si presentano al “Bar Italia” e abbattono a colpi d’ascia quell’intollerabile simbolo individualistico, che sa di creatività e d’iniziativa privata: una vera bestemmia per il credo statalista. Non contento, Voronjn dà poi anche l’ordine di appiccare il fuoco ai resti. Di fronte alle fiamme che divorano la sua creatura, Emilio e Nella piangono, ma si giurano l’un l’altro che non si arrenderanno.

Il “Bar Italia” però è l’ultima fiammata di vita...

Trascorrono alcuni giorni. È l’alba. Nella ed Emilio dormono abbracciati come al solito. A un tratto, nella baracca fanno irruzione tre agenti della Ghepeù che ordinano a Emilio di alzarsi e vestirsi. Il ragazzo protesta, ma i poliziotti con modi rudi lo trascinano via, ignorando totalmente le urla disperate di Nella. Celiuskijn prova a difendere il suo padrone, ma uno dei soldati lo stordisce colpendolo alla testa col calcio del fucile.

Portato negli uffici della Ghepeù, Emilio viene accusato formalmente dal capitano Sasha Voronjn di “deviazioni individualistico-trotzkiste” e rinchiuso in una cella di sicurezza.

Nella va a chiedere notizie del suo uomo, ma il sadico ufficiale le fa credere con modi garbati che Emilio sta per essere rimandato a Mosca, dovrà avrà luogo per lui un processo di riabilitazione. Dovrebbe essere contenta, no?, dice alla ragazza con un sorriso mellifluo. Ma Nella non crede a una sola parola e si piazza insieme al cane di fronte all’ingresso della casupola della polizia.

Il pomeriggio dello stesso giorno, Emilio viene tradotto fuori dalla cella e scortato da poliziotti armati fino al battello. Sotto lo sguardo triste e impotente degli altri esiliati, è seguito da Nella, in compagnia di Irina e Olga. Giunti al molo, i poliziotti danno modo ai due di salutarsi. Emilio esorta Nella a tenere duro: lui ritornerà. La ragazza lo accarezza e mentre i suoi baci si mescolano con le sue lacrime, gli giura eterno amore. Emilio si stacca da lei e bacia le due bambine chiedendo loro di prendersi cura di sua moglie. Ma non c’è più tempo, il battello sta per partire. Un poliziotto li separa bruscamente. Mentre Emilio viene spintonato verso la scaletta del battello, la sua mano continua a stringere quella di Nella. Ci vuole l’intervento di un altro soldato per dividerli definitivamente. Salito a bordo, Emilio si volta e lancia verso Nella un ultimo sorriso gridandole «Ti amo!». Mollati gli ormeggi, il battello si allontana. In quell’istante, Celiuskijn comincia a correre lungo la riva e ad abbaiare inseguendo l’imbarcazione finché questa diviene soltanto un puntino all’orizzonte. Un po’ in disparte, Voronjn, che ha assistito a tutta la scena, torna verso il suo ufficio con un ghigno di soddisfazione.

Mosca. Nella è tornata da Pinega da un mese. Ha potuto riprendere a vivere in casa grazie all’intercessione della madre, ma i rapporti col padre sono gelidi, e i due non si scambiano una parola. La ragazzina che nell’inferno di Pinega si era dimostrata un prodigio di vitalità e coraggio, ora sembra spenta, morta dentro. La madre la esorta a reagire e a dimenticarsi di Emilio, o finirà per mettere definitivamente nei guai il padre. Ma Nella non ci sta. Possono pure cacciarla da casa, lei non abbandonerà mai suo marito.

È giorno. Nella passeggia nervosamente nel lugubre corridoio della sede dell’NKVD di Mosca. Si accosta a un finestrone, e da quella posizione vede tre agenti che scortano un uomo con le mani legate dietro la schiena. Il prigioniero, che Nella riesce vedere solo di spalle, viene fatto avanzare fino al muro che chiude da un lato il cortile interno. A quel punto l’uomo si volta verso i suoi aguzzini. Nella riconosce con raccapriccio quel volto pesto e sanguinante: è Renzo Colotti, il principale accusatore di Emilio, adesso vittima a sua volta delle purghe staliniane che imperversano in tutta l’Unione Sovietica.

L’uomo, ormai senza più alcuna volontà né possibilità di resistenza, viene fatto inginocchiare. Uno dei tre agenti gli punta alla nuca la canna della sua Makarov, e fa fuoco. Colotti si affloscia come un pupazzo, mentre Nella chiude istintivamente gli occhi e si volta di scatto, terrea in volto. In quel momento, la porta dell’ufficio del capitano Poliakov si apre e sulla soglia appare Pilar, l’ex amante argentina di Emilio, che fa segno alla ragazza di avvicinarsi. Entrata nell’ufficio, a faccia a faccia con Poliakov, Nella gli chiede notizie di Emilio. Ma l’ufficiale scuote la testa. Gli dispiace, ma nemmeno lui stavolta sa dove l’abbiano portato. E in ogni caso non potrebbe fare proprio nulla. A Nella non resta che andarsene. Mentre con gli occhi colmi di lacrime ripercorre il corridoio, la ragazza scorge da uno dei finestroni i poliziotti che, nel cortile sottostante, stanno caricando su una barella il corpo senza vita di Colotti.

(*) Su Nella che va via, s’innesta lo sferragliare di un treno in corsa...

Siamo nel settembre del 1936. In uno scompartimento di terza classe, Nella e sua madre osservano con emozione il dolce paesaggio del Nord Italia che scorre sotto i loro occhi... La ragazza si accorge che la madre è triste. Questa ammette di essere preoccupata per la sorte del marito, rimasto a Mosca per permettere loro di partire.

...Qualche ora dopo, lo stesso treno entra alla stazione di Torino. Dalla carrozza scendono Nella e sua madre. Le due donne si guardano attorno spaesate. I loro movimenti sono notati da un uomo che ha tra le mani una foto di Nella. Si avvicina e si presenta: è Mario Guarnaschelli, il fratello di Emilio. Dopo il commovente saluto tra Nella e suo cognato, i tre, seguendo il flusso dei viaggiatori, si avviano verso l’uscita della stazione.

(*) Su Nella che esce dalla stazione di Torino con la madre e il cognato, ha fine il flashback.

...Ora Nella, in procinto di ripartire da Pinega, è di nuovo sul battello. Sul molo a salutarla ci sono Irina e Olga. La sirena del battello annuncia la partenza. Un ultimo saluto e poi l’imbarcazione si stacca dal molo. Nella è triste. Un groviglio di sentimenti contrastanti si agita in lei mentre getta un ultimo sguardo a quel luogo, teatro di tanto dolore, ma anche dell’unico grande amore della sua vita. A un tratto, mentre il battello prende il largo, l’abbaiare di un cane cattura l’attenzione della donna che si sporge appena dalla balaustra. Sulla riva vede correre un cane lupo che pare quasi scortare il battello. È bianco. Sembra proprio Celiuskijn.

Su Nella che, commossa, osserva quel cane, s’innesta la voce fuori campo di Emilio che scrive la sua ultima lettera indirizzata a lei: «...Oggi, mentre lavoravamo nella cava, un raggio di sole è spuntato, improvviso, incredibile... E la mia forza è tornata per un attimo, per quel raggio di sole, e per quello che vorrei... Cosa vorrei, cara Nellina? Vorrei un po’ di cioccolata, una sigaretta... Vorrei un raggio di sole anche domani, e poi – non oso dirlo, ma sperarlo sì – tornare nella mia famiglia... E vorrei tornare da te, l’unico scopo per il quale ancora vivo. Io e te... È chiedere troppo?».

(*) Mentre ascoltiamo la voce fuori campo di Emilio, in un veloce montaggio sequenza lo vediamo in alcuni momenti della sua permanenza nel gulag situato nell’estremo oriente siberiano.

Ma una gelida mattina dell’aprile del 1938, il ragazzo viene prelevato dalla sua baracca e portato al centro del campo. Emilio è malato, ha la febbre alta e non si regge in piedi. In realtà la sua condanna a morte è dovuta al fatto che non è più in grado di lavorare, quindi improduttivo per l’economia del gulag. Davanti ai due poliziotti che debbono eseguire la sentenza alla presenza di tutti gli altri internati, Emilio perde i sensi, poi li recupera, ma non sta dritto in piedi. Lo legano a un palo e gli gettano un secchio d’acqua addosso per tenerlo sveglio. Intanto l’acqua in pochissimi minuti si ghiaccia sul suo volto e sul petto. Inaspettatamente Emilio apre a fatica gli occhi e abbozza un ultimo sorriso. Sulle sue labbra il nome pronunciato senza alcun suono di Nella. Quando gli sparano, le pallottole, perforano il ghiaccio, facendo esplodere una nuvola di schegge gelate che si disperdono nell’aria...

Sul pulviscolo di ghiaccio che sale sino in cielo, la scena dissolve nuovamente sulla poppa del battello che s’allontana sulle acque del fiume Pinega, divenendo via via sempre più piccolo.

(*) Su quest’immagine c’è lo stop fotogramma e appare la parola Fine

(**) Qui per leggere la prima parte


di Giancarlo Lehner