Eisenhower e la profezia inascoltata

martedì 27 maggio 2025


Quando la tecnica divora la democrazia

Nel gennaio del 1961, mentre si apprestava a lasciare la Casa Bianca, Dwight David Eisenhower, un generale divenuto presidente, pronunciava parole che sarebbero risuonate attraverso i decenni come un monito profetico, senza tuttavia comprendere la radicalità del processo che stava descrivendo. L’avvertimento contro il “complesso militare-industriale” non era soltanto l’analisi lungimirante di un uomo di Stato, ma il sintomo di una trasformazione epocale che rivelava la natura ultima della tecnoscienza: un apparato il cui scopo non è la realizzazione di questo o quel fine determinato, ma la realizzazione di ogni possibile scopo, l’aumento indefinito della potenza fino al raggiungimento dell’onnipotenza. Quando Eisenhower osservava che “siamo stati costretti a creare un’industria di armamenti permanente di vaste proporzioni”, stava involontariamente descrivendo la manifestazione concreta di questa logica: la tecnoscienza non si limita a produrre strumenti per la guerra o per la pace, ma si configura come l’apparato universale per la realizzazione di qualunque scopo, sia esso la distruzione del nemico o la sua pacificazione, la difesa della libertà o la sua soppressione. La tecnoscienza non è quindi uno strumento al servizio dell’economia, ma l’espressione paradigmatica di un potere che mira a rendere possibile tutto ciò che può essere reso possibile, senza limitazioni di principio. La logica dell’onnipotenza si dispiega indifferentemente attraverso la produzione di “vomeri” o di “spade”, poiché il suo scopo ultimo non è né l’agricoltura né la guerra, ma l’incremento indefinito della capacità di realizzare qualunque fine.

Ma perché questo processo è incontrollabile e infinito? La risposta risiede nella condizione fondamentale dell’Occidente moderno: la morte di Dio, ovvero la dissoluzione di ogni orizzonte di verità assoluta che possa fungere da limite e da criterio per l’azione umana. In un mondo in cui non esiste più una verità eterna e immutabile che possa stabilire il bene e il male, il giusto e l’ingiusto l’unico criterio rimasto è l’efficacia che segue dall’incremento della potenza. La tecnoscienza diventa così l’unico linguaggio universale dell’umanità, l’unico metro di giudizio che non richiede fondamenti metafisici o religiosi: funziona ciò che aumenta la capacità di controllo e di dominio, fallisce ciò che la diminuisce. Ma proprio perché non esiste più una verità assoluta che possa dire “basta”, che possa stabilire un limite definitivo alla volontà di potenza, il processo di incremento tecno-scientifico è per sua natura infinito e autoalimentante.

Già Max Weber aveva intuito questa dinamica quando descrisse la “gabbia d’acciaio” (Stahlhartes Gehäuse) come l’esito ultimo del processo di razionalizzazione occidentale: una volta che la razionalità formale-strumentale si è dispiegata, essa genera un sistema autoreferenziale che imprigiona l’uomo moderno in strutture che egli stesso ha creato ma che ormai lo dominano completamente. La “gabbia d’acciaio” weberiana non è altro che la forma concreta di quella condizione che qui si sta descrivendo: un apparato tecnico-razionale che, avendo “disincantato” il mondo e dissolto ogni valore assoluto, può trovare il proprio limite soltanto nella propria onnipotenza. Ogni risultato raggiunto diventa immediatamente il punto di partenza per un ulteriore incremento, ogni problema risolto genera nuovi problemi che richiedono soluzioni ancora più potenti, ogni sicurezza conquistata rivela nuove insicurezze che esigono protezioni ancora più sofisticate. Quando Eisenhower confessava di aver “stabilito le sue responsabilità ufficiali in questo campo con un preciso senso di delusione”, stava inconsapevolmente testimoniando l’impossibilità strutturale di arrestare un processo che, non avendo più alcun limite esterno dato da una verità assoluta, può trovare il proprio limite soltanto nell’onnipotenza stessa, ovvero mai, poiché l’onnipotenza è per definizione illimitata.

È precisamente qui che emerge la contraddizione fatale tra democrazia e tecnoscienza, contraddizione che il discorso di Eisenhower rivela senza riuscire a tematizzarla adeguatamente. La democrazia moderna si fonda infatti sull’idea che il valore cui tutto dovrebbe essere sacrificato è la libertà: essa pone come principio incontrovertibile e universale che tutti gli uomini nascono liberi e uguali, che la volontà popolare è sovrana, che i diritti umani sono inviolabili. Ma questi principi democratici, per poter essere sostenuti e difesi in un mondo dominato dalla logica della potenza, devono necessariamente ricorrere alla tecnoscienza: per proteggere la libertà occorrono armi sempre più potenti, per garantire la sicurezza dei cittadini occorrono sistemi di sorveglianza sempre più sofisticati, per difendere la democrazia occorre un apparato militare-industriale sempre più imponente. La democrazia si trova così costretta a negare se stessa per affermare se stessa: per sostenere la “verità” della libertà deve incrementare indefinitamente un apparato tecno-scientifico che non riconosce alcuna verità assoluta e che trasforma tutto, inclusa la libertà, in strumento per l’aumento della potenza. Quando il presidente uscente ammoniva che occorre “guardarsi dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata” da parte del complesso militare-industriale, stava esprimendo l’aspirazione impossibile di una democrazia che vorrebbe utilizzare la tecnoscienza senza essere da essa utilizzata, che vorrebbe servirsene come di un mezzo neutro per i propri fini assoluti senza accorgersi che la tecnoscienza trasforma inesorabilmente ogni fine in mezzo per il proprio autopotenziamento.

Qui si dispiega la dialettica dell’inversione mezzo-scopo che condanna la democrazia a una sconfitta annunciata: ciò che inizialmente era concepito come mezzo per la difesa dei valori democratici – l’apparato tecno-scientifico – diventa progressivamente il vero soggetto del processo storico, mentre i valori democratici si trasformano in strumenti retorici per legittimare l’espansione dell’apparato stesso. La “libertà” diventa il pretesto per giustificare sistemi di controllo sempre più pervasivi, la “sicurezza” il motivo per incrementare la capacità distruttiva degli armamenti, la “pace” l’obiettivo che richiede una preparazione alla guerra sempre più sofisticata. I presunti valori assoluti della democrazia si rivelano essere funzioni dell’incremento relativo della potenza: essi vengono affermati quando servono a potenziare l’apparato, negati quando lo ostacolano, reinterpretati quando occorre adattarli alle sue esigenze. La democrazia non viene distrutta frontalmente dalla tecnoscienza, ma svuotata dall’interno, trasformata in una forma politica funzionale all’espansione illimitata dell’apparato. Quando Eisenhower osservava che “l’influenza totale – economica, politica, persino spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni Statehouse, ogni ufficio del Governo federale”, stava descrivendo precisamente questo processo di colonizzazione interna: non è che il complesso militare-industriale conquisti la democrazia dall’esterno, è che la democrazia si trasforma spontaneamente nelle forme politiche più adeguate al funzionamento dell’apparato tecno-scientifico.

Il destino della sconfitta democratica si compie quindi non attraverso un colpo di stato o una rivoluzione, ma attraverso la metamorfosi della democrazia stessa: essa sopravvive nominalmente, mantiene le proprie istituzioni e i propri rituali, continua a proclamare i propri valori, ma tutto questo diventa l’involucro formale di un processo sostanzialmente tecno-scientifico. Il cittadino democratico continua a votare, ma le alternative tra cui può scegliere sono tutte interne alla logica dell’incremento della potenza; continua a rivendicare i propri diritti, ma questi diritti vengono riconosciuti nella misura in cui sono funzionali all’efficienza dell’apparato; continua a partecipare al dibattito pubblico, ma i termini del dibattito sono stabiliti dalle esigenze tecno-strutturali. La democrazia diventa così la forma politica perfetta per l’apparato tecno-scientifico, perché garantisce il consenso volontario dei cittadini a un processo che essi credono di controllare ma che in realtà li controlla. Quando il generale si dichiarava “orgoglioso” di tornare a essere un “privato cittadino”, stava inconsapevolmente celebrando la propria impotenza: in una civiltà dominata dall’apparato tecno-scientifico, tutti sono “privati cittadini”, ovvero individui privati del potere reale di determinare il corso degli eventi, anche quando occupano le più alte cariche istituzionali. La libertà democratica si rivela essere la forma più raffinata di sottomissione volontaria all’onnipotenza tecno-scientifica, perché consente agli individui di sperimentare soggettivamente la propria libertà mentre oggettivamente funzionano come ingranaggi dell’apparato che realizza la propria destinazione: l’incremento infinito della potenza in un mondo che ha perduto ogni verità assoluta capace di porgli un limite definitivo.


di Claudio Amicantonio