Copenaghen: il destino dell’Europa passa da Kyiv

giovedì 2 ottobre 2025


A Copenaghen si apre oggi il vertice della Comunità Politica Europea, un appuntamento che si carica di un significato straordinario in un momento in cui il futuro della cooperazione continentale sembra intrecciarsi inevitabilmente con la sorte dell’Ucraina e con la sfida esistenziale posta dall’aggressione russa. Oltre quaranta Paesi partecipano a questa piattaforma, nata per rafforzare i legami tra gli Stati europei e allargare il raggio di azione dell’Unione oltre i confini comunitari. Tra i protagonisti, ancora una volta, Volodymyr Zelenskyy, presente sia fisicamente che con numerosi collegamenti in videoconferenza, il quale ribadisce senza esitazioni che la Russia è ormai “una minaccia globale”. Una definizione che non intende solo descrivere il dramma che si consuma quotidianamente sul territorio ucraino, ma che si estende a tutto l’Occidente: ogni giorno di guerra, avverte il presidente, intacca la sicurezza energetica, economica e persino nucleare dell’intera Europa.

Il messaggio di Zelenskyy è tanto diretto quanto scomodo: l’Europa deve limitare drasticamente gli acquisti di petrolio e gas da Mosca. Solo così si può indebolire la macchina bellica di Vladimir Putin e al tempo stesso consolidare la compattezza strategica tra Stati Uniti ed Europa. L’appello mira a colpire nel cuore l’arma più subdola di cui dispone il Cremlino: la dipendenza energetica, usata da anni come leva di pressione politica e diplomatica. Zelenskyy insiste sul fatto che ogni euro speso in risorse russe contribuisce a finanziare missili, carri armati e bombe che devastano le città ucraine. Odesa, Mykolaiv, Kharkiv, Zaporizhzhia: nomi che ormai evocano tanto la resistenza quanto le ferite inflitte da una guerra di aggressione che ha già provocato tantissime vittime.

Il vertice di Copenaghen si trasforma così in un palcoscenico per le contraddizioni interne al continente. Da una parte Paesi come il Portogallo, il cui primo ministro António Costa riconosce i progressi dell’Ucraina sul fronte delle riforme, sottolineando che Kyiv ha rispettato i criteri previsti per il percorso di adesione all’Unione Europea. L’allargamento, afferma, deve essere un processo basato sul merito e non su calcoli geopolitici di comodo, perché accogliere l’Ucraina significa rafforzare l’intera architettura europea. Dall’altra parte si colloca Viktor Orbán, il leader ungherese che non ha esitato a ribadire il legame indissolubile del suo Paese con il gas russo. “Non abbiamo altre opzioni”, ha detto con toni netti, rivendicando il diritto di Budapest a muoversi secondo una presunta sovranità energetica. Un’affermazione che risuona come una frattura interna in un momento in cui l’Europa avrebbe invece bisogno di mostrare compattezza e lungimiranza.

Mentre la diplomazia si misura con queste divergenze, il conflitto sul campo sembra avvitarsi in uno stallo che non è sinonimo di tregua. I dati raccolti dall’Istituto for The Study of War rivelano un rallentamento significativo delle avanzate russe: 447 km² conquistati a settembre, contro i 594 di agosto e i 634 di luglio. Numeri che dimostrano un calo, ma che non attenuano la brutalità di un conflitto che resta feroce e sanguinoso. La regione di Donetsk si conferma epicentro di scontri estenuanti, con Pokrovsk e Dobropillia sotto pressione costante. L’Ucraina riconosce che la situazione resta “difficile”, soprattutto in zone dove Mosca concentra uomini e mezzi, mentre nell’area di Kharkiv e nell’est di Dnipropetrovsk emergono scenari diversi: resistenza tenace, avanzate russe contenute, un fronte che si frammenta ma non si spegne. A fine settembre, circa il 19 per cento del territorio ucraino risultava sotto controllo totale o parziale di Mosca: un dato che rende ancora più urgente il sostegno occidentale.

In questo quadro, la minaccia nucleare incombe come un fantasma che nessuno può ignorare. La centrale di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, è rimasta senza alimentazione esterna per oltre una settimana, un record dall’inizio della guerra. Alimentata solo da generatori di emergenza, si trova in una condizione di precarietà che il direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Rafael Grossi, ha definito “insostenibile”. Nessuno, né Kyiv né Mosca, trarrebbe beneficio da un incidente in quell’impianto, ma la semplice possibilità di un disastro basta a ricordare al mondo che questa guerra non è una questione regionale, bensì un rischio globale.

Gli Stati Uniti, intanto, intensificano la loro cooperazione con Kyiv. Secondo fonti giornalistiche autorevoli, Washington ha deciso di condividere informazioni di intelligence utili a colpire con precisione infrastrutture energetiche russe e valuta l’invio di missili a lungo raggio, come i Tomahawk e i Barracuda. Non vi è ancora una decisione definitiva, ma il segnale politico è chiaro: la Casa Bianca riconosce che il futuro dell’Europa si gioca anche nella capacità dell’Ucraina di resistere e di infliggere costi crescenti all’aggressore. Ogni esitazione in questo senso potrebbe tradursi in un vantaggio irreversibile per il Cremlino, che punta a logorare non solo l’esercito ucraino ma la volontà politica dell’Occidente.

La guerra di Putin non è più una “questione ucraina”, ma una ferita aperta nel cuore del continente. Lo stesso Zelenskyy, nelle sue dichiarazioni, lo ribadisce con lucidità: “Ogni giorno che la guerra prosegue” senza un cessate il fuoco affidabile “colpisce tutti gli elementi della nostra infrastruttura energetica”. Parole che devono risuonare nelle orecchie di chi ancora fatica a comprendere la portata globale di questo conflitto. Copenaghen non è solo una vetrina diplomatica: è un banco di prova decisivo per capire se l’Europa intende davvero assumersi la responsabilità storica di difendere la libertà e la sicurezza, non solo di Kyiv, ma dell’intero continente.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza


di Renato Caputo (*)