L’inquisizione libraria del Cremlino

giovedì 18 settembre 2025


In Russia la censura non è più soltanto un’arma contro i giornalisti indipendenti, i media e le università: il Cremlino ha deciso di estendere il controllo assoluto anche ai libri. Dal primo settembre 2025 la vendita dei volumi etichettati come “inoagent” – abbreviazione di inostranny agent, “agente straniero”, una definizione che il regime usa per marchiare chi diffonde contenuti sgraditi – è ufficialmente proibita, un passo che suggella il giro di vite iniziato con la chiusura dei giornali non allineati, la repressione del dissenso accademico e l’oscuramento delle voci critiche online. Non si tratta più di eliminare semplicemente notizie scomode o soffocare il dibattito pubblico: si vuole cancellare la possibilità stessa che un cittadino incontri idee diverse, pensieri autonomi, racconti che sfuggano al controllo della narrazione ufficiale. Il meccanismo è tanto semplice quanto brutale. Un autore, un editore o perfino un traduttore che cada sotto l’etichetta di “inoagent” viene automaticamente escluso dal circuito editoriale. Le librerie sono costrette a ritirare i suoi volumi, le biblioteche a toglierli dagli scaffali, le piattaforme online a rimuoverli dai cataloghi. Non c’è discussione né diritto di replica: basta il timbro dell’autorità per cancellare anni di lavoro e rendere invisibile un libro. La censura colpisce in silenzio, senza bisogno di processi spettacolari, e trasforma un oggetto di cultura in un elemento sospetto, da far sparire prima che possa contaminare qualcuno con un’idea non autorizzata.

Il Cremlino sa bene che la parola scritta possiede una forza diversa da quella della televisione o della cronaca giornalistica. Un libro non si consuma in pochi minuti, non si perde nel flusso rapido delle notizie: resta, si rilegge, si tramanda. È capace di sedimentare identità, di formare coscienze, di dare voce a un pensiero che resiste al tempo. Proprio per questo diventa un nemico da neutralizzare. Non importa se si tratti di un saggio politico, di un romanzo che riflette sulle contraddizioni del presente o di un testo storico che propone una narrazione diversa da quella ufficiale: ciò che conta è la possibilità che quel libro possa generare un pensiero critico. L’operazione ha il sapore di una nuova inquisizione culturale. Non si bruciano fisicamente i volumi nelle piazze come nei roghi medievali o nelle dittature del Novecento, ma il principio è lo stesso: selezionare ciò che è consentito leggere e cancellare ciò che viene giudicato minaccia. La differenza è che oggi la tecnologia consente una forma di controllo più capillare e invisibile. Non serve il fuoco, basta un algoritmo che rimuove un titolo da un catalogo digitale, un ordine ministeriale che impone alle catene di librerie di far sparire una copertina. È una forma di rogo silenzioso, che lascia gli scaffali vuoti e i lettori privi di scelta senza bisogno di spettacolarizzare la violenza. Le conseguenze non riguardano soltanto gli editori o gli scrittori perseguitati. A essere colpito è il lettore comune, che si trova privato del diritto di accedere liberamente a idee e narrazioni diverse.

Non è più soltanto un cittadino a cui si nega una notizia o una voce critica alla televisione: diventa un individuo a cui si vuole impedire di formarsi un’opinione autonoma, di confrontare versioni, di pensare al di fuori della cornice stabilita dal potere. È un salto di qualità nel progetto autoritario, perché sposta l’obiettivo dal controllo dell’informazione al controllo della memoria, della cultura, della coscienza stessa. Non è la prima volta che la storia russa conosce una simile stretta. Nell’epoca sovietica esisteva il samizdat, la circolazione clandestina di libri proibiti copiati a mano o a macchina e passati di mano in mano. Oggi il regime teme che qualcosa di simile possa rinascere, alimentato dalle tecnologie digitali e dalle reti informali di distribuzione. Ma proprio questa paura spiega l’accanimento con cui il Cremlino cerca di prevenire ogni varco, ogni possibilità di diffusione non controllata. L’idea che un testo “sgradito” possa ancora circolare terrorizza più di una manifestazione in piazza, perché un libro non si disperde dopo qualche ora: resta, lavora in profondità, costruisce una memoria alternativa. Quello che accade oggi in Russia racconta quindi non solo una politica repressiva, ma anche un paradosso. Da un lato il regime crede di difendersi erigendo barriere sempre più rigide, espellendo i libri come se fossero corpi estranei, cancellando autori e voci dissidenti con un timbro burocratico.

Dall’altro, proprio questa ossessione conferma la paura che la circolazione delle idee non possa essere fermata da decreti e censure, e che la memoria continui a resistere sotterranea, pronta a riemergere. Dopo aver ridotto al silenzio la stampa, represso le università e messo sotto controllo la rete, il Cremlino ha puntato l’ultima roccaforte di libertà intellettuale rimasta: il libro. Ed è lì, tra pagine che resistono ai roghi invisibili della censura, che oggi si gioca il futuro della coscienza collettiva russa. E dovrebbero ricordarselo anche in Occidente coloro che, con leggerezza o compiacimento, continuano a descrivere Vladimir Putin come un leader legittimo, un modello alternativo, quasi un antidoto alle fragilità delle nostre democrazie: perché in quella fascinazione si cela la rimozione di ciò che davvero significa vivere sotto un potere che teme perfino la libertà di un libro.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza


di Renato Caputo (*)