giovedì 11 settembre 2025
In Russia la tortura non rappresenta più una deviazione o un abuso isolato, ma un vero e proprio strumento di Governo, radicato nelle istituzioni e utilizzato come mezzo di controllo politico e militare. L’uscita dalla Convenzione europea per la prevenzione della tortura ha segnato un passaggio simbolico e pratico: il Cremlino ha deciso di liberarsi di qualsiasi vincolo internazionale che potesse limitare l’uso della violenza. Questo atto non ha fatto che ufficializzare ciò che già accadeva da tempo nelle carceri, nei centri di detenzione preventiva, nelle colonie penali e nei locali dell’Fsb, dove il ricorso alla tortura è non solo tollerato, ma sistematicamente incoraggiato. Con l’inizio della guerra su larga scala contro l’Ucraina, il sistema di repressione interno si è saldato con quello bellico, dando origine a una macchina di terrore che colpisce soldati, civili e oppositori politici senza distinzione. Questa realtà non nasce dal nulla, ma affonda le sue radici nella storia dell’Unione Sovietica, dove la violenza di Stato è sempre stata uno strumento di potere. Già negli anni delle purghe staliniane, l’Nkvd praticava torture sistematiche per estorcere confessioni e piegare gli imputati nei processi politici. La logica era la stessa che si riscontra oggi: la tortura non serviva tanto a ottenere informazioni reali, quanto a spezzare l’individuo, a creare un clima di paura e a consolidare il controllo del regime. Dopo la morte di Iosif Stalin, il sistema dei lager si ridusse, ma non scomparvero né le pratiche violente né la cultura dell’impunità.
Il Kgb ereditò l’apparato repressivo, continuando a utilizzare violenza psicologica, isolamento e coercizione fisica contro i dissidenti. Molti prigionieri politici negli anni Sessanta e Settanta raccontarono di essere stati rinchiusi in ospedali psichiatrici, sottoposti a trattamenti degradanti o a sedazioni forzate, un modo “scientifico” per disumanizzare e neutralizzare il nemico interno. Questa continuità storica è fondamentale per capire la Russia contemporanea. Quando l’Urss crollò, non vi fu una reale resa dei conti con il passato. Nessun tribunale per i crimini del regime, nessuna epurazione delle strutture di sicurezza, nessuna memoria pubblica capace di condannare la tortura come pratica inaccettabile. L’Fsb, erede diretto del Kgb, ha mantenuto metodi e mentalità. La cultura del segreto, l’idea che il fine giustifichi i mezzi e l’assenza di controllo esterno hanno permesso che la violenza continuasse a prosperare. Non a caso, molti degli attuali vertici russi provengono proprio da quell’apparato, con Vladimir Putin come simbolo vivente di questa eredità. Nei territori occupati dell’Ucraina, le autorità russe hanno allestito campi di filtrazione che funzionano come veri centri di smistamento e annientamento. Qui le persone vengono sottoposte a interrogatori brutali, perquisizioni invasive, pestaggi e torture allo scopo di individuare chi tra loro possa rappresentare una minaccia o semplicemente non mostrarsi abbastanza collaborativo. In molti casi, basta il fatto di parlare ucraino o semplicemente non piacere a una guardia per finire nel girone infernale delle celle sotterranee.
Le testimonianze dei sopravvissuti raccontano di persone costrette a passare giorni interi in buche scavate nel terreno, senza acqua né cure mediche, con ferite aperte che spesso degenerano fino alla cancrena. Altri ricordano l’uso sistematico delle scosse elettriche, soprattutto sui genitali, una pratica crudele resa ancora più agghiacciante dal fatto che i carcerieri competono tra loro nell’inventare strumenti sempre più dolorosi. Gli abusi non si fermano al corpo, ma mirano anche alla distruzione psicologica. Ci sono racconti di prigionieri costretti a subire finte esecuzioni, a rimanere nudi e bendati per giorni, o a sopportare umiliazioni pubbliche come l’incisione di slogan filo-russi sul loro stesso corpo. Un medico volontario in Donetsk ha addirittura marchiato un detenuto con la scritta “Gloria alla Russia”, trasformando l’atto chirurgico in una tortura simbolica. Sono episodi che rivelano una dimensione sadica, un uso della medicina e della professionalità al servizio della disumanizzazione. In parallelo, l’assenza di cure adeguate diventa un’arma letale: le ferite non vengono trattate, le infezioni si diffondono, e la sofferenza viene prolungata deliberatamente.
Le cifre fornite da attivisti e organizzazioni per i diritti umani sono spaventose: si parla di migliaia di civili ucraini arrestati e trasferiti in Russia o trattenuti in località segrete, con stime che variano tra i settemila e i quindicimila dispersi. Le famiglie spesso non ricevono alcuna informazione e vivono in un limbo di angoscia. A ciò si aggiungono i prigionieri di guerra, costretti a subire trattamenti che violano apertamente le Convenzioni di Ginevra: pestaggi quotidiani, isolamento prolungato, privazione del sonno, violenze sessuali, torture con acqua e soffocamento simulato. Le denunce raccolte dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni indipendenti convergono tutte nel descrivere una realtà di violenza sistematica, pianificata dall’alto e messa in atto con freddezza militare. Anche ex funzionari delle carceri russe, fuggiti all’estero, hanno confermato la natura ordinata di queste pratiche: le guardie ricevono direttive chiare a non mostrare pietà nei confronti degli ucraini, e le body-cam, obbligatorie per documentare le attività quotidiane, vengono spente o proibite quando si tratta di detenuti legati al conflitto. Ciò dimostra che le violenze non sono il frutto di eccessi individuali, ma parte integrante di una politica pianificata e protetta dai livelli superiori della catena di comando. Le conseguenze sono devastanti non solo per le vittime dirette, ma per l’intera società: la tortura viene usata come strumento di intimidazione collettiva, per diffondere paura e annichilire ogni forma di resistenza. Alcuni casi emblematici hanno scosso l’opinione pubblica internazionale, come quello della giornalista ucraina Viktoriia Roshchyna, ritrovata morta con segni di atroci violenze e persino la rimozione di organi interni, un atto che rimanda a scenari di barbarie estrema.
Organizzazioni come Memorial, fondata dal dissidente Oleg Orlov, hanno denunciato che almeno cinque istituti penitenziari in Russia – tra cui Taganrog, Cherepovets e il Sizo di Rostov – praticano torture sistematiche e pianificate. Lo stesso Parlamento europeo ha approvato risoluzioni che condannano le violenze contro prigionieri di guerra, giornalisti, religiosi e minoranze, qualificandole come crimini di guerra e contro l’umanità. Tutto ciò delinea un quadro cupo e drammatico: la Russia contemporanea ha scelto di fare della tortura una componente organica del proprio apparato repressivo e bellico. Non si tratta di episodi sporadici, ma di una strategia deliberata volta a schiacciare ogni opposizione e a trasformare il terrore in un linguaggio politico. La continuità con il passato sovietico è evidente: come allora, la tortura è al tempo stesso mezzo di annientamento individuale e strumento collettivo di intimidazione. Per i prigionieri ucraini, come per gli oppositori interni al regime, l’assenza di tutele giuridiche e la complicità delle istituzioni significano vivere nell’ombra dell’annientamento. Per la comunità internazionale, la sfida resta quella di documentare, denunciare e impedire che questa macchina di violenza continui a operare nell’impunità, perché ciò che oggi avviene nelle celle russe è l’eredità di decenni di repressione mai veramente superata e il riflesso di un potere che si fonda sulla paura e sulla sofferenza degli altri.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
di Renato Caputo (*)