mercoledì 6 agosto 2025
Negli ultimi anni, l’Italia del vino è diventata una meta molto amata non solo da sommelier e appassionati di enologia, ma anche da una certa élite russa – quella che ha fatto fortuna (e spesso carriera) all’ombra del potere politico e finanziario del Cremlino. Lontani dal rumore delle sanzioni internazionali e dalle tensioni geopolitiche, alcuni nomi ben inseriti nei circuiti del capitalismo post-sovietico hanno trovato nei filari italiani una via di fuga elegante: tra cantine toscane, ville umbre e blend pregiati, si coltivano uve ma anche relazioni e reputazioni. Il caso forse più emblematico è quello della Fattoria della Aiola, incastonata nel Chianti classico, acquistata tramite una società cipriota ormai in liquidazione. Secondo inchieste condotte dalla Fondazione anticorruzione russa e da media italiani, dietro questa operazione ci sarebbe l’ex vicepresidente di Gazprombank Ilya Eliseev, soggetto sanzionato dall’Unione europea. A oggi, non risulta che la proprietà attuale abbia mai violato leggi italiane o comunitarie, ma certo la trasparenza non è stata la priorità assoluta nella gestione societaria. E mentre Bruxelles congelava capitali e beni, la tenuta continuava a ricevere finanziamenti Pac (Politica agricola comune) per la promozione del vino toscano.
Altre uve, stesso copione. Nella Maremma grossetana, la tenuta Torre Civette è da anni nelle mani di Roman Trocenko, imprenditore del settore aeroportuale russo, anch’egli incluso nelle liste delle sanzioni. L’acquisto risale al 2014, ben prima dell’attuale scenario bellico, ma i contributi pubblici erogati alla tenuta continuano a fluire, con una generosità che fa quasi pensare che Bruxelles si sia distratta. O che, come spesso accade, le strutture societarie italiane facciano da filtro perfetto tra l’alta politica internazionale e il paesaggio agrario della provincia. A Bolgheri, invece, la proprietà dei vigneti della Madonnina è riconducibile – attraverso una società cipriota – all’imprenditore Konstantin Nikolaev, noto per i suoi interessi nel settore ferroviario e per i rapporti con l’entourage putiniano. Anche in questo caso, fondi europei e incentivi verdi si sono felicemente incontrati con un assetto proprietario discretamente opaco.
Spostandoci nell’entroterra umbro, la Tenuta Antognolla è diventata oggetto di un investimento ambizioso: un resort di lusso affiancato da una cantina moderna, progettata con la consulenza dell’enologo Riccardo Cotarella. Il progetto è sostenuto da Andrey Yakunin, figlio dell’ex capo delle ferrovie russe e figura di spicco nei circoli economico-diplomatici moscoviti. Anche qui nessuna violazione formale, naturalmente: tutto è stato impostato con grande cura, tra merlot in crescita e promesse di sviluppo locale. Ma è difficile ignorare l’effetto collaterale: un modello di espansione internazionale che, tra un appezzamento e una degustazione, consente di trasformare capitali discussi in bottiglie da collezione. A pochi chilometri, il Castello di Procopio, proprietà di Evgeny Lebedev (figlio dell’ex oligarca Alexander Lebedev), completa il quadro di una regione sempre più gettonata da questi nuovi intenditori.
Se questi investimenti fossero solo il frutto di un amore sincero per la tradizione vinicola italiana, ci sarebbe poco da eccepire. Ma la realtà è più sfumata. In molti casi le proprietà risultano intestate a società offshore, registrate in paradisi fiscali come Cipro o le Isole Vergini britanniche. Tutto perfettamente legale, s’intende, ma anche estremamente utile per evitare domande troppo curiose su chi ci sia dietro. Questo tipo di anonimato societario ha permesso – anche in presenza di sanzioni – il continuo afflusso di fondi europei, con un’efficienza che forse l’agricoltura locale invidierebbe. Che poi, l’Unione europea riesca a bloccare uno yacht ma non un ettaro di sangiovese, è un dettaglio interessante. Il contributo degli enologi italiani a questo fenomeno non è secondario. Figure come Cotarella hanno messo a disposizione la propria competenza per realizzare vini “italiani” in Russia e progetti russi in Italia.
In Crimea, ad esempio, una delle cantine riconducibili a imprenditori vicini al Cremlino ha prodotto un vino in stile toscano, con etichettatura elegante e profilo enologico perfettamente allineato al gusto occidentale. Un’operazione di rebranding geopolitico in formato bottiglia, potremmo dire. In definitiva, il legame tra oligarchi russi e vigneti italiani è un fenomeno che mette in dialogo mondi solo apparentemente distanti: da un lato, il lusso discreto della campagna italiana, dall’altro le strategie patrimoniali di chi cerca spazi sicuri per investire e riqualificare la propria immagine. I risultati sono tangibili – cantine restaurate, filari ordinati, vini premiati – ma lasciano sul tavolo un interrogativo: davvero bastano una cantina ristrutturata e un’etichetta elegante per far dimenticare da dove arrivano certi capitali?
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
di Renato Caputo (*)