venerdì 1 agosto 2025
Rivoltare il terreno mediorientale con l’aratro (vedi le imprese dell’Idf, Israel Defence Forces), o più semplicemente mostrare il cambiamento attraverso il recupero dei simboli e dei segni imperiali del mitico regno Omayyade siriano? Israele ha scelto il primo strumento, ben più radicale, spegnendo con la sabbia del deserto il Cerchio di Fuoco tracciato dall’immaginario Asse della Resistenza. Per più di 40 anni, infatti, il regime sciita iraniano aveva costruito, tutto intorno al perimetro dei confini della “entità sionista”, una macchina da guerra che doveva cancellarla dalle carte mediorientali, in base agli statuti di Teheran e dei suoi proxy. Ed è così che Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin, ormai, credono che le rispettive questioni vitali dei loro Stati-Nazione vadano risolte esclusivamente con l’uso della forza, che però il mondo libero sostiene sia sproporzionato e genocida nel caso della guerra israeliana a Gaza. Tuttavia, sarebbe stato sufficiente che milioni di wokist d’Occidente fossero scesi nelle pubbliche piazze fin dall’8 ottobre 2023, chiedendo a grandissima voce, assieme ai loro Governi arabi e occidentali (che, invece, lo fanno oggi, dopo tre anni di distruzioni e 60mila vittime!), la resa incondizionata di Hamas, con la restituzione degli ostaggi, la chiusura dei tunnel e l’esilio volontario dei suoi feroci miliziani. Se tutto ciò fosse accaduto, la guerra sarebbe finita d‘incanto già a dicembre 2023. Gaza oggi sarebbe praticamente intatta e il popolo palestinese avrebbe avuto garantito un futuro, previo coinvolgimento di tutti gli Stati arabi super ricchi, che hanno sempre fatto finta di sostenere la causa palestinese, armando fino ai denti le formazioni estremistiche laiche e fondamentaliste dei Fratelli Musulmani.
Invece, al contrario di Netanyahu, che lo ha di recente bombardato a difesa dei drusi perseguitati e fatti oggetto di sterminio da parte dei jihadisti sunniti, il nuovo Presidente della Siria post-Assad, Ahmed al-Shara, ha fatto ricorso al simbolismo, pubblicando un video pacifico in cui lo si vede montare un bellissimo cavallo nero, all’interno di un recinto di sabbia delimitato da qualche striminzito palmizio, indossando un elegante giubbotto di pelle. In apparenza solo un atto di narcisismo, se non fosse per il sottofondo musicale canoro contenuto nella clip stessa, in cui si tessono le lodi del Califfato Omayyade che dominò il Medio Oriente nel VII e VIII sec. d. C., e che “incuteva paura ai Re persiani alla sola pronuncia del suo nome”, come recitano le strofe di quella nostalgica canzone. Anche se, per prudenza politica, è stato epurato il passaggio sciovinista che recita: “sono un musulmano arabo, e non un’appendice iraniana”. Ma il messaggio a Teheran è passato forte e chiaro: la Siria non è più sotto l’influenza degli sciiti iraniani, perché il suo destino nazionale è di nuovo nelle mani dei suoi figli sunniti. Per molti arabi, del resto, la dinastia Omayyade rappresenta l’epoca d’oro nella storia dell’Islam, che avuto origine a Damasco nell’A.D. 661, in cui si affermò il primo regno musulmano, sconfiggendo nell’arco di 90 anni anche i persiani nella corsa alla conquista dell’Asia centrale e del Nord Africa. Il collasso dell’influenza iraniana nella regione, con la sua estromissione dalla Siria, rappresenta un punto di svolta irreversibile, che non si era più visto da decenni in Medio Oriente. E una parte di questo nuovo bilanciamento geopolitico riguarda proprio l’aspetto del riflusso dell’integralismo islamico, che ha sconvolto il Medio Oriente a seguito del disastroso intervento Usa del 2003, quando l’occupazione dell’Iraq ha consentito agli sciiti di prendere il controllo di Bagdad.
Con il tramonto della “Mezzaluna sciita”, dopo la fuga all’estero del sanguinario dittatore siriano Bashir al-Assad, e la demolizione per mano di Israele delle milizie proxy di Teheran, termina quell’infausto periodo della storia mediorientale, che ha visto per decenni i due fondamentalismi dello sciismo e del sunnismo all’opera in Iran e in Arabia Saudita, in cui Riyad finanziava generosamente le famose “madrasse” (scuole coraniche sunnite), disseminandole un po’ dappertutto nell’universo della Umma. Ora, però la domanda da farsi è Chi e che cosa sostituirà quel mondo bipolare del “sunnisciismo”, che ha governato sin qui le sorti dell’area mediorientale, pur confliggendo a tratti. Rimangono memorabili, da quest’ultimo punto di vista, le feroci diatribe antisciite diffuse dai canali televisivi dell’Arabia Saudita negli anni 1990-2000 e seguenti, in cui i governanti iraniani erano etichettati come “Savavidi”, in riferimento all’espansione nel XVI sec. dell’impero teocratico sciita. In questo contesto, la Siria è uno Stato-chiave per capire quali saranno gli sviluppi futuri di quella tormentata regione, dato che Turchia e Arabia Saudita intendono porre fine alle divisioni settarie, che hanno fin qui contraddistinto quell’area del mondo, compromettendone la stabilità e lo sviluppo economico. L’Iran è storicamente responsabile di aver favorito la permanenza al potere della minoranza sciita alawita degli Assad, salvando dieci anni fa il regime dalla sconfitta sicura, a seguito della guerra civile scatenata dalle milizie sunnite e jihadiste. E a queste ultime appartiene anche la fazione radicale dell’attuale Presidente siriano, Ahmed al-Shara, che ha tutta l’intenzione però di domare i settarismi politico-religiosi, per ricomporre l’unità della Nazione.
Con il venir meno della sponda siriana e della roccaforte libanese degli Hezbollah, ha termine la destabilizzante ondata religioso-imperialista dello sciismo iraniano, iniziata con l’insediamento a Teheran di Ruhollah Khomeini nel 1979. Del resto, il principe ereditario saudita, Mohammed Bin Salman, fu buon profeta dichiarando nel 2018 al periodico americano The Atlantic che il leader supremo iraniano, Ali Khamenei, era peggio di Hitler, perché il Capo del nazismo voleva in fondo conquistare solo l’Europa, mentre gli ayatollah volevano sottomettere il mondo intero, “con la loro teoria figlia del Demonio”. Anche se, con la sua real politics, Bin Salman si fece aiutare nel 2023 da Pechino per riprendere un minimo di rapporti diplomatici con Teheran, per via degli Youthi yemeniti, alleati del regime iraniano, e contro i quali gli stessi sauditi avevano ferocemente combattuto (via proxy), senza vincerli. Socio-politicamente, l’Arabia Saudita e altri Stati arabi emergenti sono confrontati a un impetuoso aumento demografico interno, che impone loro il perseguimento di una crescita pacifica per dare lavoro ai giovani, la cui mancanza di prospettive ha favorito al massimo in passato l’emergenza di movimenti jihadisti. Oggi i governi della regione guardano con grande interesse alle nuove tecnologie e allo sviluppo dell’Ia, nell’intento di varare faraonici piani urbanistici per la costruzione di città ipertecnologiche, e non hanno nessuna intenzione di tollerare il ritorno del caos. Ed è per questo motivo che Ankara, Riyad ed Emirati Uniti sono fermamente determinati a ricostruire la Siria, facendone un crocevia strategico mediorientale, da collegare con nuove strade, oleodotti, cavi in fibra ottica e centrali elettriche, per investimenti stimati che viaggiano tra i 250 e i 400 miliardi di dollari. Ma, un bel “Grazie” all’Aratro israeliano qualcuno prima o poi oserà dirlo?
di Maurizio Guaitoli