Chi non salta progressista è

martedì 18 novembre 2025


Purtroppo è così, sempre la stessa solfa: quando si è in campagna elettorale ogni fine settimana scoppia l’immancabile polemica. Tutto, pur di parlare, straparlare al solo scopo di tenere vivo il fuoco della polemica. Insomma, un teatrino che non appassiona più nessuno. E poi dicono l’astensione. Ma cosa si aspettano i geni della sinistra, campioni assoluti nella stigmatizzazione delle parole, dei gesti, financo degli sguardi degli avversari, quando l’unica cosa che sanno produrre in quantità industriali è l’insulto verso chi non è come loro, verso chi non la pensa come loro? È dello scorso fine settimana l’ultima (in ordine cronologico) sceneggiata del centrosinistra sulle cattive intenzioni del centrodestra nel fare autoritarismo liberticida ai danni dei “veri” democratici. Abbiamo detto sceneggiata, ci sta. Perché la cornice nella quale si è svolto il “fattaccio”, che ha rinfocolato la polemica vittimistica dei “compagni”, è stata Napoli.

Venerdì, quartiere Fuorigrotta, luogo di antica tradizione operaia dove troneggia il mitico stadio di calcio “San Paolo” oggi trasformato in “Stadio Maradona”. Da quelle parti c’è il “Palapartenope” una struttura nata per il teatro ma capace di ospitare grandi eventi. E l’evento di giornata è la manifestazione elettorale del centrodestra per spingere la candidatura di Edmondo Cirielli alla presidenza della Regione Campania. C’è un mare di gente e ci sono i big della coalizione. C’è Giorgia Meloni, che sente profumo di rimonta sul centrosinistra e perciò non manca di schiacciare a tavoletta il pedale dell’acceleratore proprio all’ultima curva prima del traguardo. Tutto fila liscio, come da copione. Rivendicazioni sulle cose (buone) fatte dal Governo, critiche all’apposizione che non saprebbe fare il suo lavoro ma solo insultare l’avversario. Immigrati che qui non dovrebbero starci, l’aiuto finanziario al ceto medio, i conti dello Stato in ordine, l’apprezzamento delle grandi istituzioni finanziarie internazionali, i mercati che apprezzano e investono, lo spread che scende, la fiducia nella nuova Italia che sale. Tutto ciò che occorre a galvanizzare il proprio popolo e a convincerlo di non concedersi una gita fuori porta la prossima settimana ma di recarsi alle urne per cambiare la storia di una regione divenuta “rossa” decenni orsono a sua insaputa.

Poi, però, sul finire della manifestazione accade qualcosa che accende la miccia della polemica sdegnata a sinistra. I militanti che stanno in platea non ce la fanno a contenersi e, dopo aver ascoltato l’inno di Mameli, cominciano a saltellare al grido di “chi non salta comunista è”. E cosa accade? Che sul palco tutti i leader presenti, Meloni in testa, invece di limitarsi a qualche sorrisetto di compiacimento sull’onda dell’entusiasmo della folla presente, si mettono a saltare anche loro e a gridare “chi non salta comunista è”. Anche Antonio Tajani salta, una scena da consegnare alle teche Rai. Apriti cielo, la sinistra si sente offesa dallo sfottò.

Come si permette la Meloni, presidente del Consiglio dei ministri e capo del Governo, di prendere in giro la parte degli italiani che non la vota, che canta Bella ciao a colazione e a pranzo sfila (ma non digiuna) al grido di “Palestina libera”? L’europarlamentare dem Sandro Ruotolo, una vecchia conoscenza degli ambienti televisivi e oggi responsabile Informazione nella segreteria nazionale del Partito Democratico, dà voce allo sdegno di prammatica che è la cifra del giudizio (snob) espresso dalla sinistra sull’avversario politico. Sentenzia Ruotolo: “Sembravano dei fascistelli in gita. E invece no: erano la presidente del Consiglio e vari ministri, lì, sul palco di Napoli, a dare il peggio di sé”. Ora, caro Ruotolo, come si direbbe in Val Pusteria, famose a capisse: dare del comunista a qualcuno smaschera il fascistello che è in noi? Eppure, c’è stato un tempo in cui definirsi comunisti era motivo d’orgoglio, era riconoscersi in una grande storia ideale; era rivendicazione di appartenenza a una comunità umana e politica. Era cantare Bandiera rossa la trionferà; era l’Internazionale, l’inno; era Compagni avanti! Il gran Partito noi siamo dei lavorator. Erano i morti di Reggio Emilia; erano i funerali di Palmiro Togliatti e quelli del più amato di tutti: Enrico Berlinguer. Erano le lotte operaie e quelle contadine. Erano i caduti di Portella della Ginestra; erano i ragazzi della Volante rossa; era la “seconda ondata”; era l’ala rivoluzionaria di Pietro Secchia. Era la fede cieca, assoluta, in Lenin e in Iosif Stalin. Era Peppone. Erano i compagni della sezione di Brescello. Era la Gisella della storia “guareschiana”, ma erano soprattutto la Nilde (Iotti), la Camilla (Ravera), la Marisa (Rodano) e le tante compagne dell’Udi (Unione donne italiane), comuniste e femministe.

Probabilmente fa bene Ruotolo a indignarsi per quello slogan così maledettamente urticante. Perché coloro che oggi circolano a sinistra, è vero non sono comunisti. Non lo sono mai stati. Loro, e quelli come loro dalla fine della Prima Repubblica, si sono appropriati di uno spazio lasciato desolatamente vuoto dal crollo dell’utopia del socialismo reale. Loro sono i borghesucci che si sono impossessati dell’idea progressista per farne un credo politico, una morale pubblica e un’ideologia totalizzante. Sono quelli che hanno mischiato comunismo e progressismo tirandone fuori un composto incommestibile. Solo l’ignoranza diffusa ha potuto nascondere un tale pasticcio. La radice storica della sinistra affonda nella contestazione totale al sistema capitalista. Il comunismo – come il socialismo prima della svolta della Seconda Internazionale – nega cittadinanza al diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione; invoca la lotta di classe come strumento per la conquista dell’egemonia su una società da riedificare sulla base di modelli collettivi di organizzazione.

Il progressismo invece ha ascendenza nel liberalismo riformatore dell’Ottocento. Nasce per rendere più equo il mercato, non per abolirlo. Chiede per le classi deboli e svantaggiate più istruzione, più diritti civili, maggiore uguaglianza non solo formale ma anche sostanziale, non la dittatura del proletariato. L’odierno progressismo fin dalla sua fase costitutiva ha rinunciato al conflitto sistemico, ma non alla conquista dell’egemonia sulla società che passa dal controllo dell’ordine capitalistico, non dalla sua distruzione. Per non rimanere nel vago, chiedetevi cosa sia il green deal voluto fortemente dai progressisti se non un modo sottile ma non meno duro di controllare lo sviluppo capitalistico. I “fighetti” progressisti hanno trasferito il piano del conflitto da quello dei diritti sociali a quello dei diritti civili non intendendo minimamente prestarsi a uno scontro diretto con il capitalismo e con l’economia di mercato. Cosa c’entrano questi qui, da Elly Schlein a venir giù per li rami, con la ferrea logica del comunismo? Nulla, se si escludono alcuni scimmiottamenti di ribellismo pseudo-rivoluzionario sui temi della sessualità e sulla questione del gender.

Quindi, a veder bene, quello sfottò inscenato al Palapartenope è obiettivamente fuori calibro rispetto alla realtà dell’attuale sinistra. Non possono essere comunisti quelli che non saltano perché sono già maledettamente borghesi della peggiore specie: quella che s’impone fingendo di essere altro da sé. Elly Schlein, Giuseppe Conte, Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni, Ilaria Salis e tutta la cricca di “benpensanti” non possono essere comunisti perché sono irrimediabilmente, perdutamente, borghesucci progressisti. E Roberto Fico, il “posillipino”, è il più piccolo borghese di tutti, con la sua barchetta attraccata al molo di Nisida e la sua villetta al Circeo. Non c’è traccia di Rosa Luxemburg nel suo Dna e neppure di Antonio Gramsci. Viva Marx, viva Lenin e viva le vacanze a Ibiza.

Un consiglio non richiesto a quelli del centrodestra che si divertono a saltare al ritmo degli slogan: la prossima volta, se volete rimanere all’interno della storia ideale e politica dell’Occidente, non urlate “Chi non salta comunista è”. Non ha senso. Dite piuttosto “Chi non salta progressista è”, perché così farete centro nello smascherare la vera natura di questa sinistra truffaldina che si spaccia per ciò che non è pur pretendendo di far credere di esserlo. Sono borghesi, sono per il capitale e per la solidarietà; per il mercato e per la redistribuzione statale della ricchezza (altrui); sono per i patrimoni e per la patrimoniale, perché quando si domina il tutto si può ammettere una cosa e il suo contrario senza che in ciò si legga contraddizione alcuna. E si è per la classe operaia e per i lavoratori pur non sapendo che farsene dell’una e degli altri. Ci sta e ci sta pure che se la prendano se qualcuno osi chiamarli comunisti. Che dire, sono progressisti.


di Cristofaro Sola