Torre dei Conti: un crollo che spezza una vita

mercoledì 5 novembre 2025


Si muore. É l’unico accadimento di cui abbiamo certezza. Tuttavia, non succede a tutti allo stesso modo. Vi sono morti desiderabili, quando si passa il limitare della vita con dolcezza, senza traumi, circondati dall’affetto dei propri cari e ci sono situazioni drammatiche dove l’individuo lascia questa Terra nel modo peggiore, accoltellato all’angolo di una strada per pochi spiccioli; con il corpo straziato, in una corsia d’ospedale, da un male implacabile nella sua ferocia; disperso sul campo di battaglia; precipitato in un luogo ignoto. Si muore in alta quota, si muore tra le acque. Si muore da eroi e da codardi; da innocenti e da colpevoli. Si muore soli, dimenticati da tutti; si muore tra la disperazione dei soccorritori che falliscono nella loro missione di salvataggio. Si muore nella convinzione della resurrezione; si muore nella rassegnazione per il game over. Si muore nella fede; si muore nel dubbio.

Si muore sotto le macerie di un edificio crollato o in buco che porta giù, nelle viscere della terra. Si muore tra le urla dei vivi, si muore nel silenzio di quegli stessi vivi intenti a guardare altrove, presi nel loro tram-tram quotidiano. Eppure, ogni volta fa capolino la medesima domanda che non ammette risposta: quella morte, che ci investe come un atto d’accusa alla precarietà delle nostre esistenze, si sarebbe potuta evitare? Octay Stroici, lavoratore rumeno di anni 66, una moglie e una figlia, ieri se n’è andato, Non ce l’ha fatta a sopravvivere alle macerie della Torre dei Conti che gli è crollata addosso all’improvviso. Ai Fori imperiali, nella Città eterna dove la morte finisce per essere un bizzarro regolamento di conti tra vecchie e nuove divinità che lì vi albergano dalla notte dei tempi, all’alba della vera civiltà. Una straziante agonia, quella di Octay, a cui ha fatto da contraltare l’immensa generosità dei soccorritori.

Loro, i Vigili del fuoco, eroi normali di questo tempo eccezionale, ce l’hanno messa tutta per restituire alla vita un morituro. Octay, non un gladiatore come altri prima nel non distante Colosseo ma un operaio, un lavoratore che, valicati i Carpazi, è venuto a cercare fortuna e futuro nella Valle del Tevere. Octay non se n’è andato in silenzio, ha parlato, ha comunicato con i suoi soccorritori. Ha resistito, per offrire ai salvatori l’onore delle armi nell’irrisolta battaglia quotidiana contro la grande mietitrice. Octay ha tenuto duro fino a quando non l’hanno portato fuori dalle macerie che si erano predisposte a esserne la tomba, poi ha mollato nell’autoambulanza che avrebbe dovuto condurlo in ospedale per un desiderato lieto fine, come a dire: io Octay, prima di crepare, rendo testimonianza che voi Vigili del fuoco, bravi ragazzi, il vostro dovere l’avete compiuto fino in fondo.

Per quanto possa sembrare assurdo, in questa dolorosa vicenda si scorge il tratto inconfondibile della nemesi storica. A 45 anni di distanza la coscienza dell’Italia si placa rimarginando una ferita finora mai sanata. Era il 10 giugno 1981, a Vermicino, un posto non lontano da Roma, e c’era un bambino, il piccolo Alfredo Rampi di anni 6 caduto accidentalmente in un pozzo artesiano. Una maledetta bocca dell’inferno, larga 28 centimetri e profonda 80 metri, quella in cui era precipitato. Arrivarono tutti, subito. Anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. C’era la televisione che mandava in diretta la cronaca del dolore di una madre, e di una comunità. Il bambino era vivo e i soccorritori parlavano con lui per fargli coraggio, per tenerlo sveglio e vigile, in attesa di trovare una soluzione per tirarlo fuori, per riportarlo alla vita. Come per Octay. Furono tre giorni e tre notti di disperazione e di speranza. Furono tre giorni e tre notti di riflettori accesi e di parole consumate al ritmo di un distributore automatico di caffè; tre giorni e tre notti di rabbia e di commozione filtrate attraverso un tubo catodico.

Alfredino non ce la fece, morì in quel buco d’inferno. I soccorritori non erano riusciti a riportarlo vivo in superficie e lui, il bambino, la luce del sole non l’ha più rivista, ma gli è toccato in sorte il buio della caverna, come se uno spietato dio tellurico l’avesse ricacciato nell’oscurità dell’utero materno. Questa volta, no. I Vigili del fuoco non si sarebbero piegati a un’altra Vermicino. Salvare Octay a qualsiasi costo, senza badare ai rischi. È vero: non ce l’ha fatta, ma la sua morte può diminuire di un solo grammo il peso del sacrificio profuso dai soccorritori nel provare a salvarlo? Non possiamo parlare in luogo del defunto, ma ci piace credere che Octay non apprezzerebbe che si diminuisse anche di una virgola lo sforzo compiuto dai nostri eroi del quotidiano.

Adesso si comincerà con la macabra danza per la ricerca delle responsabilità e con lo spettacolo della politica, che eccelle nell’arte ignobile dello scaricabarile. È colpa del sindaco, che è di sinistra; no, è colpa del Governo che è di destra. C’erano i fondi pubblici per restaurare il gigante di pietra, erano anni che andavano avanti i restauri. Allora, perché è caduta? Come sempre ci penserà la magistratura a fare luce, anche se non sarà mai piena e, con il tempo, verrà divorata dalle ombre, fin giù nelle tenebre. Ma la Procura di Roma non era il porto delle nebbie?

Sapete che c’è? Dell’individuazione dei responsabili della tragedia ci importa poco o niente. Ci importa che qualcuno, Stato o privati che siano, si prenda cura dei superstiti, di moglie e figlia di Octay. Perché c’è qualcosa di peggio della morte in solitudine: c’è il disperante abbandono in cui vengono lasciati i vivi quando si spengono i riflettori e le troupe televisive sbaraccano dalle loro postazioni allestite con vista sul dolore.


di Cristofaro Sola