venerdì 26 settembre 2025
La riforma della magistratura (carriere separate di giudici e pubblici ministeri, due Consigli superiori diversamente formati, Alta Corte disciplinare) sta per compiere l’ultimo passo parlamentare. In primavera gli elettori diranno sì o no alla revisione della Costituzione. Politici e magistrati non sono su fronti contrapposti. L’opposizione sta con i magistrati. La maggioranza difende la legge voluta dal Governo e approvata in Parlamento. Risentiremo fino alla noia i pro e i contro triti e ritriti dentro le Camere, compresi i due rimasti sullo sfondo, come una piattaforma ideologica sommersa. Nel corso dei decenni della magistratura imperante, l’Associazione nazionale dei magistrati, in documenti ufficiali, convegni, articoli, interviste, ha fatto un uso reiterato di due concetti che, sebbene accattivanti, posseggono quella indeterminata vaghezza che torna comoda pro domo sua ma non pro Iustitia nostra e, anche perciò, non dimostra affatto quel che pretendono i magistrati. Mi riferisco alla cosiddetta “cultura della giurisdizione” e al cosiddetto “controllo di legalità”, due espressioni vuote che suggeriscono più di quanto comunicano.
Secondo gli oppositori della riforma, specialmente magistrati, il pubblico ministero separato da colleghi giudici perderebbe quella cultura della giurisdizione che invece contrarrebbe, come un virus benefico, lavorando spalla a spalla, a contatto, con i giudici nella stessa carriera unica. Dunque vengono incardinati (dovrebbe supporsi!) nelle procure della Repubblica i pubblici ministeri vergini, senza quella cultura della giurisdizione che, rettamente intesa, dovrebbero possedere o per natura o per preparazione o, più esattamente, per quel senso del diritto e della giustizia senza il quale è certo che avrebbero sbagliato carriera. Cultura della giurisdizione di cui i magistrati dell’accusa sarebbero a digiuno senza la consuetudine con i giusdicenti. Viene pure da chiedersi, prescindendo dalla ricerca del suo sfuggente significato, se un magistrato dell’accusa debba poi avere la stessa identica cultura della giurisdizione che parrebbe ovvia in ogni magistrato giudicante. Nel processo penale l’accusa è diversa di per sé. Sebbene la legge imponga (imporrebbe) al pubblico ministero di ricercare anche le prove a favore dell’indagato (una stramberia, a ben vedere), sta di fatto che la mentalità che dispiega l’accusatore nella ricerca e valutazione delle prove a carico è sostanzialmente differente da quella imposta dall’etica giuridica e dalla Costituzione al magistrato giudicante nel soppesare le prove sottopostegli dal pubblico ministero. La cultura della giurisdizione, invocata dalla magistratura contro la riforma, non è confacente ma priva di sostanza. È un artificio dialettico assimilabile alla petizione di principio.
Seppure l’espressione cultura della giurisdizione avesse un che di allusivo, il controllo di legalità pare una creazione letteraria della magistratura che non trova riscontro nel nostro ordinamento, non perché in esso non vengano esercitati controlli di legalità ma perché non vi esiste un tale potere conferito alla magistratura come attribuzione generale intera e completa. Quando la magistratura pretende di attribuirsi un potere generalizzato di controllo legale degli atti e fatti nell’ordinamento, essa scambia la causa con l’effetto. Le sentenze vengono pronunciate e i provvedimenti vengono emessi dalla magistratura non perché costituiscano frazioni di un preteso controllo generale di legalità. È invece la trama delle sue particolari decisioni che sancisce direttamente la legalità dei comportamenti controllati mentre indirettamente produce l’effetto inintenzionale di realizzare la propensione alla legalità di tutti i comportamenti.
Non sussiste lo Stato di diritto perché la magistratura esercita un totale controllo di legalità, ma la magistratura esercita il controllo di legalità perché esiste lo Stato di diritto. È lo Stato di diritto, complessivamente considerato come ordinamento giuridico, che costituisce in senso generale la garanzia della legalità (conformità alla legge) della vita ivi svolgentesi, e della quale garanzia i pronunciamenti dei magistrati sono la parte riguardante le singole controversie. Alla magistratura competono casi individuali, non la complessiva legalità delle condotte dei titolari di funzioni pubbliche e dei privati cittadini. Il controllo di legalità, malamente inteso, sembra evocare una sorta di magistratura über alles, depositaria di una globale competenza soprastante l’assetto ordinamentale. Quasi una supremazia obliquamente rivendicata.
In conclusione, cultura della giurisdizione e controllo di legalità, prive di un loro proprio significato specifico, sono espressioni da espungere dalla prossima campagna politica di preparazione al voto referendario, decisivo per la prospettata revisione costituzionale concernente la magistratura. E, se fraintese come argomenti a favore del “no”, diventano pericolose perché fallaci.
di Pietro Di Muccio de Quattro