martedì 26 agosto 2025
E poi dicono la terza età! Mario Draghi, incamminatosi con passo lento verso la vecchiaia, si è dato a un nuovo, entusiasmante, mestiere: il dispensatore di perle di saggezza. Evidentemente, se ne avvertiva il bisogno se, come sembra, politica ed élite economica nazionali pendono dalle sue labbra. Allora ecco servita, qualche giorno orsono al meeting di Comunione e Liberazione organizzato a Rimini, l’ennesima “predica dal tetto” by Mario Draghi, un brand di sicuro successo comunicativo ma di nessuna efficacia pratica. L’ex governatore della Banca centrale europea – nonché ex presidente del Consiglio dei ministri – se la prende con l’Unione europea che c’è e che non dovrebbe esserci per come si è strutturata e ha (malamente) funzionato nell’ultimo mezzo secolo, quello dell’adattamento alla fase neoliberale. Il verdetto è impietoso: “Per anni, l’Unione europea ha creduto che la sua vasta dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, fosse sufficiente a garantirle un ruolo di rilievo geopolitico nelle relazioni commerciali internazionali. Tuttavia, il 2024 sarà ricordato come l’anno in cui questa convinzione si è dissolta”.
Una critica forte la sua, ma è fondata? Certamente sì: fondata ma non originale. Esiste da lunga pezza una solida corrente di pensiero, sviluppatasi particolarmente a destra, che ha combattuto strenuamente l’idea che l’economia potesse egemonicamente sovrastare la politica; potesse dominare, condizionandole, le pulsioni – anche quelle irrazionali – che concorrono a creare l’idem sentire dei gruppi umani organizzati in strutture sociali complesse; che l’attitudine al consumo della gente comune potesse prevalere su ogni altra aspirazione dell’essere umano; che la spiritualità fosse soltanto un modo esotico scelto dalla mente raziocinante di occupare il proprio tempo libero. Non era così, perché se lo fosse stato avrebbe avuto ragione Francis Fukuyama nel sostenere che – caduto il comunismo e il mondo divenuto preda della globalizzazione economica e della capacità contaminate della nuova democrazia a impronta liberista che reca in sé i fattori costituitivi del “sovranazionalismo” – la storia sarebbe finita.
Invece, la storia non ha mai smesso di camminare nel medesimo solco tracciato agli albori delle civiltà, in un mondo la cui cifra identificata è stata – e sempre resterà – il conflitto, non la concordia universale; la guerra, non la pace; l’interesse nazionale, non il bene dell’umanità. Draghi ne prende atto oggi, e questo ci allieta. Tuttavia, non per essere polemici a tutti i costi, ma la domanda sorge spontanea: dove cavolo era lui, quando l’Unione europea imboccava la direzione di marcia sbagliata? Serve a poco litigare sul latte versato e su chi ne porti la responsabilità maggiore, quello che stato è stato, guardiamo avanti! Intanto, Draghi non convince quando pone in premessa della sua requisitoria una ricostruzione storica delle cause che condussero i Paesi europei ad abbracciare la soluzione dell’unità che, francamente, è roba da riassuntino alle scuole medie. Dice Draghi: “L’Unione europea è stata creata perché, nella prima metà del XX secolo, i modelli tradizionali basati sugli Stati nazionali avevano in molti Paesi fallito nel proteggere questi valori (democrazia, libertà, indipendenza, pace, sovranità, prosperità, equità, n.d.r.). Molte democrazie avevano rinunciato alle regole a favore della forza bruta, conducendo l’Europa alla tragedia della Seconda Guerra mondiale”.
La cosa è molto più complicata di come sia stata sinteticamente descritta. La crisi non era, se non marginalmente, degli Stati nazionali ma degli imperi costituitisi nei secoli precedenti. Il nuovo secolo si apre con la ricerca, attraverso processi rivoluzionari, di nuovi paradigmi aggregativi che tenessero conto dell’elemento innovativo che il Novecento scopriva per la prima volta: l’irruzione delle masse nel politico. La soluzione privilegiata in gran parte dell’Europa passava per l’instaurazione di regimi autoritari in luogo della modernità democratica di origine ottocentesca, ritenuta obsoleta e perciò inadatta a rispondere alle istanze poste dall’uomo “nuovo” risorto dalle ceneri del Primo conflitto mondiale. Il fulcro intorno al quale ruota la costruzione del nuovo ordine – che in Italia Benito Mussolini incarna alla perfezione – si sostanzia nell’idea forte di separare nettamente la partecipazione mobilitante dalla decisione, per cui all’ingresso potente delle masse nella vita politica, al livello di governo fa da contraltare il potere assoluto ed escludente delle élite chiamate a guidare la nazione. Cosicché, l’obiettivo primario della conversione al totalitarismo si sostanzia in una sostituzione concettuale: al pluralismo politico fonte della democrazia parlamentare si sostituisce il pluralismo sociale, prodotto dalla storia e dalla vita della nazione.
Occorrerà una guerra mondiale e una vittoria sul campo per rimettere in pista la democrazia liberale nella sfera occidentale. Non è questione di dettaglio, né di mera puntigliosità accademica, muovere una critica sul come Draghi abbia liquidato frettolosamente – e maldestramente – il capitolo delle premesse storiche che condussero alcuni Paesi europei a condividere alcuni interessi, fino ad allora di esclusiva giurisdizione nazionale. Alcuni, ma non tutti. Non si poteva sperare di più, né si desiderava fare di più. Un conto darsi norme comuni per definire e regolare gli scambi commerciali, altra cosa sarebbe stato mettere in comune la politica estera, quella della difesa, le politiche industriali e quanto altro potesse contribuire a dare corpo alla costruzione di una sola entità federata delle nazioni dell’Europa occidentale. Quelle cause ostative non sono scomparse nonostante i 70 anni trascorsi dalla firma dei primi trattati europei. Come non è mutata la tentazione imperiale di alcuni Stati europei. Si pensi alla Germania di Angela Merkel e al tentativo tedesco, nei primi due decenni del millennio, di servirsi della gabbia normativa comunitaria per espandere la propria egemonia economica sull’intero Continente – Ucraina compresa – al punto da risvegliare nelle sue politiche industriali lo spettro del “Piano Funk” di hitleriana memoria.
Un giorno lontano toccherà agli storici scrivere la verità sul ruolo che la Germania ha avuto, a cominciare non dal 2022 ma dal 2004 al tempo della rivoluzione arancione a Kiev, nel cercare di piazzare un cuneo divaricatore tra l’Ucraina e la Russia. Quando verrà compiuta tale operazione di verità si capiranno molte delle cose accadute di recente in quel teatro e che, al momento, risultano ancora di difficile decifrazione. Draghi la prende da lontano per arrivare a dire qualcosa di piccolo. Che bisogna mettersi insieme per concentrare le risorse finanziarie necessarie ad assicurare la competitività dell’Europa sul mercato globale. Non ha torto. Ma per giungere a un simile traguardo non è necessario passare per la via tortuosa e colma di insidie della maggiore integrazione politica degli Stati dell’Ue. Per creare una realtà federale unitaria non basta sottoscrivere dei pezzi di carta, occorre che i popoli avvertano realmente il bisogno di condividere un destino. Per giungere a un tale livello di fusione ideale non è sufficiente disciplinare la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali, serve una rivoluzione morale che modifichi antropologicamente il pensiero dell’uomo europeo. Cosa non facilissima, se non impossibile in un macrocosmo esistenziale altamente differenziato.
Su cosa si fonda una nazione? Su una lingua comune, su una storia comune, su una religione comune, su una “Kultur” identitaria che codifica il canone dell’appartenenza per differenza rispetto al contesto generale. Tutto questo non c’è, non esiste. Si pensi solo al paradosso, in fatto di comprensione, che, in seno alle istituzioni comunitarie, la lingua ufficiale scelta per comunicare tra Stati aderenti sia l’inglese, cioè la lingua di una nazione che neanche c’è più nell’Unione europea. Anche la religione – meglio sarebbe dire: le religioni – degli autoctoni non aiuta l’amalgama. Dire che siamo tutti cristiani e invocare le comuni radici giudaico-cristiane dell’Europa non vuol dire niente. Essere luterani o calvinisti, sul piano sia della spiritualità sia dell’etica pubblica e privata, non è la stessa cosa che essere cattolici apostolici romani. E la diffidenza che i “nordici” nutrono verso i “mediterranei”, di cui sovente tendono a dare rappresentazioni poco lusinghiere, trova fondamento nello spirito della Riforma che ha tagliato di netto ogni possibile cordone ombelicale tra il pensiero classico greco-romano, assorbito dal cattolicesimo, e tutto ciò che si è sviluppato in Europa di alternativo e confliggente a esso.
La ricetta di Draghi combina medicine giuste somministrate mediante una terapia sbagliata. Per riprendere quota, l’Europa deve fare l’esatto contrario di ciò che prefigura il pur illustre dispensatore di perle: deve rafforzare la forza delle singole nazioni, badando semmai a che venga sempre garantito un corretto equilibrio di forze, allo scopo di evitare che una di esse abbia la tentazione di prevalere sulle altre imponendo una propria egemonia. Il futuro dell’Unione o è di un’entità interstatuale coesa e in grado di parlare con una sola voce in determinati contesti geopolitici o non è. Se poi ciò che cerca Mario Draghi è una “visione” si ricordi di quello che gli disse il cancelliere tedesco, Helmut Schmidt: “Se cerchi una visione vai dall’oculista”. Che non è una cattiva idea perché, com’è noto, a una certa età le diottrie precipitano.
di Cristofaro Sola