venerdì 1 agosto 2025
Le ragioni che hanno spinto la Francia – o meglio: il presidente Emmanuel Macron – a tentare la “mossa del cavallo” sullo scacchiere della guerra in Medio Oriente mediante il riconoscimento dello Stato di Palestina, sono state illustrate con mirabile lucidità da Fabio Marco Fabbri nel suo editoriale di ieri sul nostro giornale. Leggere per verificare. E apprendere. Al riguardo, ci permettiamo di aggiungere qualche riflessione ad ampio spettro che, si spera, possa aiutare a comprendere in quale tremendo buco nero stiano ficcando la testa alcuni dei leader occidentali tra i più disorientati e confusi in circolazione. Riguardo alla questione del riconoscimento dello Stato di Palestina che, all’improvviso, ha ripreso a infiammare il dibattito in Occidente vogliamo essere cristallini: nessuno nega che la situazione determinatasi a Gaza sia grave, ma non è accelerando sulla proposta dei “due popoli-due Stati” che si risolve il problema. Ancor meno si agevola il processo di pace con le fughe in avanti di Paesi occidentali – leggi: Francia, Gran Bretagna, Canada, che seguono a ruota l’iniziativa già assunta in Europa da Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia – che all’improvviso decidono di rompere gli indugi e di riconoscere un quanto mai improbabile Stato di Palestina.
Lo diciamo dritto per dritto: è una gigantesca stupidaggine. Per molte evidenti ragioni. In primo luogo. Si riconosce cosa? Uno Stato si definisce tale perché ne sono chiari gli ambiti territoriali sui quali esercitare la sovranità. Qual è il territorio dello Stato Palestinese? Secondo gli Accordi di Oslo del 1993, le aree destinate alla creazione di un’entità statuale autonoma dovrebbero riguardare Gaza e la Cisgiordania. Tuttavia, su Gaza dal 2007 incombe l’incubo della tirannia di Hamas, un’organizzazione terrorista che non ha mai cessato di portare attacchi odiosi alla popolazione israeliana, fino all’evento tragico del 7 ottobre. Nel territorio di Gaza vivono circa 2,4 milioni di persone, in larghissima parte palestinesi. Con i suoi 360 chilometri quadrati – per farsi un’idea dell’ordine di grandezza, è quanto la superfice del Lago di Garda – è tra le aree più densamente abitate del pianeta. Secondo stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), risalenti al 2023, i rifugiati palestinesi residenti a Gaza sarebbero circa 1,6 milioni. L’81,5 per cento della popolazione vive in povertà, con un tasso di disoccupazione complessivo del 46,6 per cento. La Cisgiordania è guidata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Ma non tutta.
Gli Accordi di Oslo avevano previsto una tripartizione del territorio in tre settori differenziati: l’area A sotto controllo palestinese, la B sotto controllo congiunto israelo-palestinese e la C sotto il controllo israeliano. La sola Area C corrisponde al 60 per cento del territorio cisgiordano. Il contenzioso in atto tra Israele e Anp verte sulla politica di insediamenti di civili israeliani che Tel Aviv continua a promuovere nell’Area C, in deroga agli Accordi di Oslo che prevedevano l’assegnazione dell’Area allo Stato ebraico solo in via temporanea. La Cisgiordania insiste su una superficie di 5.655 chilometri quadrati (15 volte più grande della Striscia di Gaza) e ha una popolazione di circa 3,3 milioni di persone. Sommando i palestinesi di Gaza a quelli della Cisgiordania si giunge a un numero di quasi 6 milioni di individui che non è distante dai numeri demografici di Israele. Lo Stato ebraico conta circa 9.656 milioni di abitanti. Ma di questi solo il 73,6 per cento è di matrice ebraico-israeliana. Il 21,1 per cento è costituito da arabi israeliani.
Senza un pieno, esplicito, convinto atto di volontà da parte della dirigenza politica palestinese a riconoscere il diritto di Israele alla sovranità sulla sua terra, come è solo immaginabile proporre la legittimazione internazionale di uno Stato autonomo palestinese ai confini dello Stato ebraico? Quale garanzia di sicurezza avrebbe Israele da un simile soluzione? In secondo luogo. Perché proporre adesso la formula dei “due popoli, due Stati”? La tempistica è sbagliata. Con Hamas che ancora non è stata sradicata da Gaza una tale soluzione verrebbe interpretata alla stregua di una vittoria dell’organizzazione terrorista sul debole e pavido fronte occidentale. Il che costituirebbe un micidiale incoraggiamento per tutte le realtà terroristiche del mondo. Il messaggio sarebbe: con la ferocia sistematica praticata sui civili, con gli eccidi, i sequestri di massa e i ricatti, si raggiungono gli obiettivi desiderati. Dopo il 7 ottobre, il segnale da inviare alla canaglia terrorista sarebbe dovuto andare in direzione opposta: se violate le regole della umana convivenza, scordatevi di ottenere un’opportunità di sopravvivenza che sia una.
Nel caso specifico: più colpite Israele, più si allontana nel tempo la possibilità di giungere alla legittimazione di uno Stato palestinese sovrano e indipendente. In terzo luogo. Anche nei momenti più bui della storia, una connessione al buonsenso, che ha permesso all’umanità di non autodistruggersi, c’è sempre stata. Ed è stata tessuto con i valori etici perenni. Come si può pensare di premiare i palestinesi quando a Gaza vengono ancora trattenuti con la forza civili israeliani rapiti nel modo più vile e disumano? Come si può gratificare un popolo che fino a oggi è stato quanto meno connivente – si è mai avuta notizia di una resistenza palestinese anti-Hamas? – con chi ha mostrato al mondo carte geografiche dalle quali il territorio israeliano era espunto? Come si può appoggiare l’aspirazione di gente che continua a proclamare l’affermazione di una Palestina dal fiume al mare, come se quello che c’è in mezzo – che è Israele – non esistesse o, come negli auspici della maggioranza dei palestinesi, non dovrebbe esistere? Semplicemente, non si può.
In quarto luogo. Ammettendo che si possa pensare a una transizione da Hamas alla Anp nelle terre dei palestinesi, cosa è oggi la cosiddetta “Autorità”? Non è un faro di libertà e di democrazia, visto che il vertice è inchiodato al potere da oltre venti anni. Il presidente Maḥmūd ʿAbbās, conosciuto come Abū Māzen, non ha mai consentito al suo popolo che si votasse per ricambiare la classe dirigente palestinese che è lì a spartirsi denari e potere dal 2006. La corruzione dilaga, grazie a un’economia che si basa quasi esclusivamente sugli aiuti e sui finanziamenti provenienti dalla comunità internazionale. E Israele dovrebbe fidarsi di un branco di fantocci tenuti in sella dai potenti loro dante causa arabi e occidentali e messi a tenere a briglia stretta un popolo che ontologicamente odia gli ebrei e se potesse lo eliminerebbe volentieri dalla faccia della terra? Ecco perché ciò che proclamano i pusilli leader occidentali sono acrobazie politiciste e ballon d’essai, a uso di un’opinione pubblica occidentale che di loro ha le tasche piene. Opportuna, quindi, la frenata del Governo italiano sul tema del riconoscimento dello Stato palestinese. Una cosa inutile e potenzialmente pericolosa, perché spingendo i vertici israeliani a sentirsi abbandonati dai tradizionali alleati potrebbe provocarne un inasprimento nell’azione di contrasto sul campo a ciò che resta della popolazione di Gaza.
Eppure, qualcosa di interessante è accaduto in queste ore, a dimostrazione del fatto che anche da un’iniziativa sballata possa scaturire una positività. Ci riferiamo alla dichiarazione di New York, sottoscritta da 17 Paesi, più i 22 membri della Lega araba e l’intera Unione europea. La novità, in un certo senso storica, è il testo del documento approvato. Per la prima volta Stati quali Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Giordania e Turchia hanno formalmente condannato l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023; hanno chiesto al gruppo terroristico il rilascio immediato di tutti gli ostaggi trattenuti; hanno intimato ad Hamas di deporre le armi ponendo fine al dominio tirannico sulla popolazione di Gaza.
Un passo significativo che può essere letto come la volontà dell’emisfero sunnita del mondo islamico di revocare ogni appoggio e sostegno all’organizzazione terroristica, per anni classificata come uno dei proxy dell’Iran nell’area. Non è un passaggio risolutivo, ma è certamente una mossa che va nella giusta direzione. Il processo di pace occuperà un tempo lunghissimo, forse decenni, ma, come per tutte le opere dell’uomo, da qualche parte si dovrà pur cominciare. La presa di responsabilità dei principali Stati a prevalenza musulmana della regione mediorientale è un promettente incipit. Non lo sono certo le fughe in avanti e gli avventurismi dei piccoli leader occidentali che, nella loro azione politica, somigliano sempre più al due di coppe quando la briscola è a bastoni.
di Cristofaro Sola