venerdì 18 luglio 2025
Sembra ieri quello storico (per il popolo della destra) 22 ottobre 2022, quando Giorgia Meloni varcò la soglia del Quirinale per prestare giuramento da presidente del Consiglio dei ministri. La prima donna a farlo. La prima esponente della destra di lontane origini missine a rivestire un così prestigioso ruolo. Sono trascorsi mille giorni, vissuti pericolosamente dal nostro premier ma sempre reggendo saldo il timone del Governo tra le mani. Apprendere che, per longevità, al momento, il suo Gabinetto si collochi al quinto posto – lo precedono il Governo Renzi (IV), Craxi (III), Berlusconi quater (II) e Berlusconi bis (I) – nella classifica di tutti i Governi succedutisi dall’avvento della Repubblica, non è soltanto una curiosità statistica ma un dato politico di primaria grandezza. Va rimarcato. Se si considera che, ai fini della valutazione complessiva dell’affidabilità di un sistema-Paese agli occhi degli investitori internazionali, tra i primi requisiti richiesti vi sia proprio la stabilità delle istituzioni che lo governano, la permanenza di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, che durerà, salvo cataclismi imprevedibili, fino alla scadenza naturale della legislatura nel 2027, è un valore aggiunto per la reputazione dell’Italia.
Tuttavia, non basta limitarsi incasellare la durata dell’esperienza di governo alla voce “successi del centrodestra”. Si può restare al potere galleggiando, nell’attesa che il Paese, portato all’esasperazione dall’immobilismo decisionale di chi ha nelle mani le leve di comando, se ne liberi bocciandolo nelle urne. Ma non è questo il caso. Meloni ha speso questi mille giorni nel “fare” e la gente, stando ai sondaggi, glielo riconosce. L’azione di Governo è stata dinamica, anche se non sempre è stata orientata nella direzione ottimale. Ma siamo umani. Anche Giorgia Meloni lo è. E sbagliare rientra tra i comportamenti che gli umani assumono nel vivere la vita che si sono costruiti. Il problema, semmai, è di non perseverare nell’errore, come ci hanno insegnato i nostri antenati. E di questa mai tramontata saggezza Giorgia dovrebbe fare tesoro, in particolare adesso che gli alleati del centrodestra sono chiamati a discutere delle candidature alle prossime elezioni regionali in realtà che si annunciano strategiche per la destra. Come il Veneto (Giorgia, do you remember la Sardegna?). Ma questa è una storia ancora da scrivere.
Oggi è tempo di tirare le somme di un’attività quasi triennale alla guida della nazione. Positiva o negativa? Una risposta secca non può essere data perché odorerebbe di tifoseria. Occorre articolare l’analisi, a partire dalla sua contestualizzazione nel tempo storico vissuto. Se fossimo superstiziosi dovremmo ammettere che alla Meloni è buttata male. La sua esperienza di governo è per intero dentro l’arco temporale della peggiore crisi che il pianeta abbia conosciuto dalla fine del Secondo conflitto mondiale. Non è solo la guerra russo-ucraina – e le sue conseguenze sulle economie dei Paesi occidentali – a costituire la zavorra caricata sulle ali di qualsiasi Governo occidentale. Nel cielo meloniano non ne è transitato uno, ma uno stormo di “cigni neri”. Con l’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa la storia si è rimessa in cammino e prepara il passaggio a un nuovo ordine mondiale, le cui regole e i cui equilibri geopolitici sono al momento ignoti, anche ai principali protagonisti del cambiamento. I processi di riposizionamento degli Stati hanno subito un’accelerazione tale da sconvolgere le agende politiche di tutti i Governi. Quello italiano non ha fatto eccezione.
Cosicché, l’idea in sé virtuosa di procedere alla realizzazione puntuale del programma presentato agli elettori è stata accantonata per fare spazio alla gestione dei fattori congiunturali insorgenti, e non prevedibili, come, ad esempio, il contenimento degli effetti della bolla speculativa sul prezzo del gas che il Governo Meloni si è trovato ad affrontare all’indomani del proprio insediamento. Cionondimeno, pur non distogliendo lo sguardo dalla quotidianità, qualcosa che avesse un orizzonte prospettico è stato prodotto. Aver reso strutturale il taglio del cuneo fiscale è sicuramente un provvedimento che è andato nella direzione giusta, riguardo alle aspettative dell’elettorato del centrodestra. Anche il significativo aumento del tasso di occupazione è stato un successo targato Meloni. Ma il risultato più importante questo Governo l’ha ottenuto nella tenuta dei conti. Una postura nell’amministrazione delle finanze pubbliche che ha riscosso il plauso degli osservatori internazionali e convinto gli investitori esteri a fidarsi dell’Italia. Il caso dello spread è paradigmatico.
Il circo mediatico, che è in maggioranza ostile al centrodestra, non ne parla perché non vuole riconoscere merito al Governo Meloni, invece si dovrebbe. Lo spread tra i titoli di Stato italiani a 10 anni e quelli tedeschi di pari periodo oggi è a 89,3 punti base. Una forbice così stretta non la si ricorda da decenni. Ora, lo spread non è solo la misura del differenziale di rendimento tra titoli del Debito pubblico comparabili. È, lato sensu, un indicatore di credibilità di una classe di Governo. Per intenderci: quando, nel 2020, a Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte e il Partito democratico era nella maggioranza, lo spread viaggiava mediamente sopra i 150 punti base. Nel gennaio 2021, alla vigilia dell’ascesa alla guida del Governo del potentissimo Mario Draghi, lo spread era sceso a 125 punti. Quando Draghi se n’è andato, ha lasciato in eredità alla Meloni un differenziale di oltre 220 punti base e l’idea diffusa nei circoli finanziari occidentali che l’apocalisse si sarebbe abbattuta sull’Italia con l’arrivo dei fascisti/populisti/sovranisti a Palazzo Chigi e dintorni.
Dopo meno di tre anni siamo ai minimi storici nella comparazione con i rendimenti del titolo di Stato tedesco e tutti, nei circoli finanziari come presso le principali cancellerie occidentali (Parigi esclusa per evidenti ragioni di personale gelosia di Emmanuel Macron), parlano di Giorgia come di un fenomeno della politica. Questo significa aver fatto bene il proprio lavoro. Ma dove la Meloni ha dato il meglio di sé è stato in politica estera. La “fascista” – nelle descrizioni mistificatorie fomentate dalla sinistra – si è mossa con intelligenza e determinazione (per quanto ci riguarda, fin troppa nel sostegno incondizionato all’Ucraina contro Mosca), sia rispetto ai rapporti transatlantici, sia riguardo alla postura da tenere in ambito Ue. È stata incoerente rispetto alle promesse elettorali? Si è schierata dalla parte di Bruxelles dopo averla duramente criticata da leader dell’opposizione in Italia? Per quanto appaia paradossale, è su questo terreno che Giorgia Meloni ha dimostrato di incarnare pienamente lo spirito conservatore. Spieghiamo perché.
Il conservatorismo non è un’ideologia tradizionalmente intesa, ma più propriamente lo si potrebbe definire una postura etica, o, per dirla con Simone Weil, una dottrina impolitica che colloca in un orizzonte di trascendenza l’agire politico finalizzato al bene comune, che per il conservatore è il bene della comunità. Ne consegue che, differentemente dai progressisti i quali perseguono le utopie delle affermazioni universalistiche e astratte dettate dall’inverarsi ineluttabile del divenire storico, il segno identitario del conservatorismo è nell’adesione totale al realismo politico, che si traduce nella volontà del conservatore di restare saldamente ancorato al proprio tempo e al proprio spazio, dove bene comune e senso comune si fondono. Nella prassi di governo, Giorgia Meloni ha messo da parte ciò che della sua linea politica sarebbe stato interpretato come forzato dogmatismo, per dare luogo a un’azione di governo rivolta all’ascolto delle istanze effettivamente emananti dalla comunità nazionale, indipendentemente dagli orientamenti ideologici che ne caratterizzano le sue componenti.
Anche la frenata su quelle che inizialmente venivano presentate come le riforme irrinunciabili da fare – il premierato e il federalismo fiscale – rientra nell’ambito dello spirito autentico del conservatorismo: si fa prima ciò che i membri della comunità ritengono necessario che si faccia e poi si provvedere a ciò che idealmente si pensa possa fare bene alla comunità che si serve. È l’essenza del realismo politico. Ecco perché con Donald Trump si tratta sui dazi a oltranza e non si rompe, rivendicando, come vorrebbe la sinistra, un’inconsistente posizione di principio figlia del pregiudizio ideologico. Ecco perché non si vota la mozione di sfiducia alla presidente Ursula von der Leyen, pur non partecipando organicamente alla coalizione dei gruppi politici che la sostengono, quando è lei a decidere su alcuni dossier fondamentali per gli interessi italiani. La sinistra spera di fare aggio nelle urne puntando a drammatizzare i comportamenti ondivaghi della Meloni. Ma come sempre, i “compagni” non hanno capito niente di Giorgia la “conservatrice”, non la “fascista”. Perché ha ragione Giovanni Orsina, che lo scrive su Il Giornale di ieri: il canone, che determina il suo agire politico, è la prudenza. La gente comune lo ha capito e la segue non perché stia incommensurabilmente meglio di come stesse prima, ma perché è convinta che la Meloni abbia la volontà – e la capacità – di “fare quel deve essere fatto”. D’altro canto, se a mille giorni dal suo insediamento il gradimento espresso dagli italiani per lei è al 45 per cento (sondaggio Ipsos giugno 2025) qualcosa vorrà significare. Quanto meno, che fino a ottobre 2027 rimarrà a Palazzo Chigi e, con tutta probabilità, non dovrà preoccuparsi di fare le valigie in quella data. Perciò, auguri Meloni e Ad maiora!
di Cristofaro Sola