martedì 8 luglio 2025
Per fortuna che c’è la realpolitik! Otto von Bismarck, dall’aldilà, ne sarà orgoglioso. In un clima estivo torrido, in cui il rischio è di annegare in un mare di ideologismi e di moralismi, la realtà si riprende la scena confermando la sua ferrea logica di adesione ai fatti per ciò che essi sono e non per ciò che qualcuno vorrebbe che fossero. Vale per la gente comune e vale per i potenti. Dopo mesi di chiacchiere su Donald Trump e su quanto la sua presidenza stia facendo male agli americani; stia relegando ai margini della storia la prima potenza globale; stia sconquassando un consolidato ordine mondiale, giungono notizie che raccontano un’opposta verità. A queste, e non alla politologia un tanto al chilo, dovremmo prestare attenzione. Occhio allora a ciò che è avvenuto a Rio de Janeiro dove si è tenuto il meeting dei Brics, cioè dei Paesi che hanno creato un’area di dialogo e di cooperazione, nelle intenzioni alternativa a quella che del G7. Brics è l’acronimo composto dalle iniziali dei cinque Stati fondatori: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. A questi si sono aggiunti: Indonesia, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e, di recente, l’Iran.
Messi insieme, i Brics allargati, hanno un potenziale economico enorme. Essi concentrano l’84 per cento delle riserve mondiali di terre rare, il 66 per cento del manganese e il 63 per cento della grafite, come ha ricordato il presidente brasiliano Lula da Silva aprendo i lavori del 17° vertice a Rio de Janeiro. Ma la forza produttiva dei Brics nel formato plus è in costante crescita. Si stima che, nel 2024, abbiano superato il G7 per prodotto interno lordo (Pil) a parità di potere d’acquisto (Ppa): 35,43 per cento contro 29,64 per cento (fonte: report di Statista 2025). Attualmente sono al 36,7 per cento. Coprono una superficie della Terra pari al 33,9 per cento; annoverano il 45,2 per cento della popolazione mondiale; il volume delle esportazioni è al 24,5 per cento; il prodotto industriale è al 39,3 per cento; la mietitura del grano è al 44,7 per cento (fonte: Brics Pay) Le principali mission che si è dato questo formato alternativo al G7 sono: la difesa del regime commerciale multilaterale e la revisione dell’architettura finanziaria internazionale. Che, tradotto per noi comuni mortali, significa: difesa della globalizzazione dal protezionismo risorgente grazie a Trump e al movimento Maga e de-dollarizzazione delle transazioni commerciali su scala mondiale.
Obiettivi ambiziosi sulla carta. Che, tuttavia, sono destinati a rimanere tali. Perché la bilancia dei rapporti di forza geostrategici, checché se ne dica, pende ancora dalla parte degli Stati Uniti. Nessuno, di là dagli atteggiamenti spavaldi della propaganda, ha voglia di fare a botte con chi ha nel proprio pugno il colpo del knockout. Accade così che al vertice che, nelle intenzioni del presidente di turno Lula da Silva, avrebbe dovuto affrontare il tema, tra gli altri, della de-dollarizzazione delle transazioni finanziari nell’area Brics, il presidente cinese Xi Jinping non si sia presentato, inviando al suo posto il primo ministro Li Qiang e che Vladimir Putin si sia collegato da remoto con il pretesto di non voler mettere in imbarazzo l’amico brasiliano il quale, di regola, avrebbe dovuto arrestarlo se il russo avesse messo piede in Brasile, in ottemperanza del mandato di arresto internazionale emesso a suo carico dalla Corte internazionale penale. E, fattore dirimente per annichilire ogni spirito ardimentoso presente al vertice, sia piombato come una bomba anti-bunker, lanciata nel mezzo del vertice, il post di Donald Trump con il quale ha diffidato i partecipanti, pena sanzioni economiche, ad approvare politiche anti-americane.
Ha scritto il tycoon: “Qualsiasi Paese che si allinei alle politiche anti-americane dei Brics sarà soggetto a dazi aggiuntivi del 10 per cento. Non ci saranno eccezioni a questa politica”. È bastato questo avvertimento perché il blocco, che in teoria dovrebbe ribaltare i rapporti di forza su scala globale, facesse macchine indietro sulle decisioni più forti e si limitasse a un laconico comunicato di “preoccupazione” per le politiche tariffarie imposte da Trump, stigmatizzando il ricorso a misure protezionistiche unilaterali ingiustificate. In pratica: acqua fresca. È la prova che, fuori dal mondo piccolo di noi europei allucinati dal fantasma di una grandeur evaporata decenni orsono, non esista una realtà omogenea e coesa pronta a mettersi sotto l’ombrello protettivo della Cina e dello yuan. Neanche la stessa Cina. Lo status di valuta di riserva del dollaro Usa resta un postulato inscalfibile nella dinamica dell’economia mondiale. Sebbene i numeri del 2023 dicano che un quinto del commercio petrolifero globale sia stato negoziato con monete diverse dal dollaro, resta il fatto incontrovertibile che le quote di transazioni in dollari transitate per il sistema Swift siano state del 45,58 per cento, contro il 23,6 per cento in euro e il 7,32 per cento in sterline.
Da tempo i Paesi del Brics, desiderosi di svincolarsi dall’infrastruttura di pagamento internazionale controllata dall’Occidente, provano un sistema di pagamento alternativo: il Brics Pay. Ma l’iniziativa stenta a decollare per due fondate ragioni. La prima: mettersi contro gli Usa è un rischio troppo grande da assumere. La seconda: non ci si fida tra partner. L’India non si fida della Cina. E viceversa. La Russia non si fida dell’amico cinese e Pechino non riesce a non guardare a Mosca come a un futuro capoluogo del Celeste impero e all’intera Russia come a una sua naturale estensione territoriale a Ovest. L’Egitto teme la reazione statunitense e non valuta sufficiente una copertura dei propri interessi da parte di Russia e Cina. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti non si fidano dell’Iran e hanno sogghignato quando Trump ha rimesso in riga il regime degli Ayatollah azzoppandogli con le bombe il programma nucleare. E il Brasile di Lula da Silva? Il Brasile balla da solo. Ma c’è di più. L’inconsistenza del formato Brics riproduce specularmente il crollo di peso del formato G7.
Non si tratta di un dato congiunturale ma di un cambio strutturale di paradigma dei rapporti tra Stati, in atto su scala planetaria. È la dichiarazione di morte del multilateralismo. Non è stato certo l’avvento di Donald Trump a innescarne la caduta, anche se con tutta evidenza è stata la postura e la personalità del leader americano a incarnare la fine di una fase storica che cede il passo al ritorno dell’età degli imperi. Tre o forse quattro, che nei decenni a venire si spartiranno il mondo per aree d’influenza delimitate. Tra questi imperi sorgenti non vi sarà l’Unione europea, il cui destino, come attestano le recenti fallimentari performance dell’organismo comunitario, è destinato a tramontare in quanto attore politico unitario, sopravvivendo solo per garantire alcuni aspetti regolatori del mercato interno. Ogni Stato membro sarà chiamato a scegliersi l’impero con cui stare. Il quarto impero potrebbe identificarsi non con una Nazione storicamente consolidata ma rappresentarsi come una joint venture tra partner nazionali, accomunati da un comune progetto di sviluppo economico.
Potrebbe essere costituito da un corridoio logistico e contraddistinto da un acronimo: Imec (India-Medio Oriente-Europa), la “via del cotone”. Dall’India, via mare verso il Golfo Persico e poi via ferrovia attraverso la Penisola arabica, fino ai terminali italiani della logistica a Genova e Trieste. Una mega area commerciale, alternativa e concorrenziale al progetto cinese di penetrazione dell’Occidente attraverso la “via della Seta”. Imec stima un potenziale di 172 miliardi di euro di interscambio commerciale (fonte: studio del direttore generale di srm – Centro Studi e Ricerche, Massimo Deandreis). Rispetto alla concezione degli antichi imperi, questi nuovi si caratterizzerebbero per una maggiore flessibilità nel consentire agli Stati aggregati di potersi unire, in via temporanea e per progetti di scopo, alle iniziative di altri imperi. Senza tuttavia mettere in crisi gli equilibri di potere stabiliti su scala globale.
Se si accetta tale lettura dell’evoluzione dello scenario internazionale appare chiaro il perché Donald Trump potrebbe mollare l’Ucraina al suo destino. Cosa che, a quanto pare, “Cavallo Pazzo” Trump sta già facendo. E anche il perché i Brics si siano defilati dalla prova di forza sul terreno valutario con l’America trumpiana. Perché di una cosa si può essere certi: gli imperi possono crollare e risorgere, ma la regola prima che ne ha garantito la pacifica coesistenza per millenni resterà per sempre immutabile. E la regola dice: cane non mangia cane.
di Cristofaro Sola