mercoledì 30 luglio 2025
Pretendere che il tennista azzurro “restituisca” parte della sua ricchezza allo Stato italiano è l’ennesima manifestazione di una cultura anti-capitalista che detesta il merito, la libertà e il successo individuale
C’è un verbo che svela molto più di quanto sembri: “restituire”. È quello usato da Mario Giordano nel suo intervento per la rubrica “Il grillo parlante” sull’ultimo numero di Panorama, dove si chiede se, dopo la storica vittoria a Wimbledon, Jannik Sinner non dovrebbe “restituire” all’Italia le tasse che ha scelto legittimamente di non pagare, stabilendo la sua residenza nel Principato di Monaco. Ebbene, non vi è chi non veda come quell’espressione, all’apparenza solo retorica, riveli in sostanza una concezione profondamente paternalista e illiberale del rapporto tra cittadino e Stato.
Il punto è che, nel linguaggio comune, restituire implica che ci sia stato prima un dare. Si restituisce un prestito, un favore, un anticipo. Ma che cosa avrebbe ricevuto, in concreto, il giovane campione dallo Stato italiano? Non gli sono stati messi a disposizione centri federali di livello internazionale. Non ha potuto contare su un sistema fiscale favorevole allo sport di alto livello. Né ha trovato un contesto competitivo, efficiente, attrattivo. Al contrario: ha costruito da sé il proprio percorso, scegliendo – come fanno tanti atleti – di allenarsi e vivere altrove. Parlare di “restituzione” in questo caso non è solo scorretto: è profondamente tossico. È l’esito di una cultura pubblica predatoria, che considera tutto ciò che l’individuo produce come una concessione momentanea, una disponibilità revocabile.
In questo schema, chi emerge non è mai davvero proprietario del proprio successo. È un debitore ontologico dello Stato, che prima o poi dovrà “saldare il conto” con una generosa dichiarazione dei redditi. E se decide di sfuggire a questo automatismo, magari scegliendo un ordinamento più snello, diventa subito sospetto, deviante, ingrato. È la riproposizione, in chiave fiscale, dell’antico pregiudizio secondo cui ogni libertà individuale è una deviazione dall’ordine collettivo. La scelta di risiedere a Montecarlo, dunque, non è più un diritto, ma una mancanza di riconoscenza.
In realtà, come ha scritto Ludwig von Mises: “Ogni persona adulta è libera di costruire la propria esistenza seguendo un proprio programma. Nessuno è obbligato a seguire i programmi di un pianificatore centrale”. E quel “programma” può ben includere anche la difesa del proprio reddito dall’aggressione fiscale. Anzi: il rifiuto di lasciarsi spogliare dallo Stato è, nelle economie aperte, una forma piena di autodeterminazione. È la dimostrazione concreta che si può vivere, creare, vincere e prosperare senza dover nulla alla mano pubblica.
Eppure, un tale scenario – in cui l’individuo costruisce liberamente il proprio successo, senza dover nulla allo Stato – è del tutto incompatibile con la narrazione dominante in Italia. Anzi, viene sistematicamente rovesciato. Chi non partecipa spontaneamente al rito redistributivo viene bollato come egoista, elusore, evasore potenziale. La vittoria a Wimbledon è così trasformata in una moneta di scambio morale: ti abbiamo esaltato, ora ricambia. Non importa che la retorica del debito sia priva di ogni fondamento. Ciò che conta è riaffermare il primato del collettivo sull’individuo, dello Stato sul cittadino, della pretesa sulla proprietà.
Questa impostazione culturale è l’espressione tipica di una mentalità ostile al merito e refrattaria alla libertà individuale. Non tollera che il successo possa nascere senza mediazioni pubbliche, senza il sigillo di un’autorità statale, senza redistribuzioni imposte in nome “dell’equità”. In questo schema, chi eccelle diventa subito sospetto. L’eccellenza non è ammirata, ma temuta. E ogni affermazione personale genera, anziché rispetto, una domanda risentita: “che cosa ci restituisce?”. È un risentimento mascherato da moralismo, un rancore elevato a dovere civico. Non si chiede un atto di generosità, ma una dichiarazione di obbedienza fiscale.
Il campione italiano, ora numero uno al mondo, non è diventato un simbolo solo per le sue doti atletiche. Lo è perché incarna un modello alternativo a quello dominante, che corrisponde a chi ce la fa senza chiedere, senza passare dal pubblico né contrarre debiti morali verso l’apparato statale. E proprio per questo disturba. Il suo successo – libero, spontaneo, autofinanziato – è un atto di accusa contro un Paese che pretende molto ma dà poco, che celebra i vincitori solo se sono fiscalmente obbedienti, che scambia la libertà per slealtà.
In questa chiave, parlare di “restituzione” è un atto politico: è l’imposizione simbolica del primato dello Stato sul merito, l’ennesimo tentativo di riportare l’eccellenza sotto il controllo della norma, della pressione, del dovere. Ma chi ha vinto sull’erba londinese, nel tempio del tennis, non ha sottratto nulla a nessuno. Ha solo scelto di non farsi togliere.
E in un Paese che fosse davvero libero, sarebbe lodato non solo per i punti conquistati sul campo, ma per la coerenza con cui ha difeso – anche fuori dal campo – la sua autonomia.
di Sandro Scoppa