Il fantasma dell’autarchia agricola

lunedì 28 luglio 2025


Un miliardo per “produrre ciò che consumiamo”: ma è lo Stato a coltivare illusioni, non il grano

Un miliardo di euro per “rafforzare la sovranità alimentare”. Così il ministro Francesco Lollobrigida ha presentato il disegno di legge “Coltivaitalia”, approvato nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento, ancora in attesa di passaggio parlamentare, prevede tre linee di intervento: sostegno alle filiere cerealicole e zootecniche, rilancio dell’olivicoltura, incentivi all’imprenditoria giovanile. Il tutto animato da una visione ideologica che ritorna ciclicamente: l’Italia dovrebbe “tornare a produrre ciò che consuma”. Una formula che richiama il mito dell’autosufficienza economica e ripropone l’idea di uno Stato pianificatore e controllore del tessuto produttivo.

In luogo di puntare su un’agricoltura libera, aperta alla concorrenza e capace di attrarre investimenti, il governo insiste su un modello dirigista, dove la politica decide cosa sostenere e chi finanziare. Non liberalizzazione, ma programmazione. Non riforme strutturali, ma distribuzione centralizzata. “Piani di filiera”, “accordi programmatici”, “priorità strategiche”: espressioni che riflettono una mentalità che ha già rallentato la produttività del settore primario per decenni.

Questo approccio ignora una verità elementare dell’economia: la conoscenza necessaria per decidere cosa produrre e come non risiede nei ministeri, ma è dispersa tra milioni di operatori. Chi coltiva, alleva e commercia dispone di competenze che nessun burocrate può sostituire. Eppure si torna a confondere il ruolo dello Stato con quello dell’imprenditore, affidando a logiche politiche ciò che dovrebbe rispondere a segnali di mercato.

Il cuore ideologico di questa impostazione è la cosiddetta “sovranità alimentare”: un concetto vago, che legittima il protezionismo e disconosce il principio della specializzazione. Nessun Paese moderno produce tutto ciò che consuma, né lo fa a costi competitivi. Importare è spesso una scelta razionale, che consente di concentrare le risorse su ciò che si sa fare meglio. Ma questa realtà viene ribaltata in nome di un’illusione dannosa per consumatori e produttori.

L’esperienza storica lo conferma. L’autarchia agricola fascista degli anni Trenta, con la “battaglia del grano”, generò sprechi e ridusse la qualità. La Cassa del Mezzogiorno finanziò opere inutili o incomplete, mancando l’obiettivo di rilanciare l’agricoltura meridionale. In entrambi i casi, lo Stato si sostituì al mercato con risultati deludenti e costosi. Oggi, lo stesso rischio si ripresenta con i sussidi pubblici, che alterano le scelte produttive: si coltiva ciò che garantisce il contributo, non ciò che il mercato richiede. Ne derivano inefficienze, sovrapproduzione e un maggiore carico per i contribuenti.

Un caso emblematico è quello della Politica Agricola Comune dell’Unione europea, che ha destinato centinaia di miliardi a sostegni spesso distorsivi. Il 20 per cento degli agricoltori riceve l’80 per cento delle sovvenzioni, premiando i grandi a scapito dei piccoli. Invece di stimolare l’efficienza, si incentiva la dipendenza dal denaro pubblico e si scoraggia l’innovazione. Le coltivazioni vengono orientate dai finanziamenti, non dalla domanda. Le aziende sussidiate investono meno in tecnologie e sostenibilità, proprio perché i profitti sono garantiti. Così si premia la rendita politica, non la capacità produttiva.

Le eccellenze italiane – dal vino alla frutta, dai formaggi all’olio – non sono nate da piani pubblici, ma dalla libertà d’iniziativa. Dove lo Stato è stato meno invadente, si è prodotta innovazione; dove ha prevalso la politica, sono fioriti sprechi e clientelismo. Il nuovo piano ripete gli stessi errori: invece di rimuovere gli ostacoli alla competitività, si continuano a distribuire risorse a pioggia. Nessuna parola su fiscalità, lavoro stagionale, semplificazione urbanistica o consorzi obbligatori.

Emblematica, in tal senso, è la misura rivolta ai giovani: l’assegnazione gratuita per dieci anni di 8.000 ettari di terreni pubblici. Ma senza una revisione delle regole che soffocano l’attività – vincoli edilizi, burocrazia ambientale, tassazione patrimoniale – nessuna agevolazione potrà attrarre investimenti. Si rischia di creare nuova dipendenza, non nuova impresa. Perché il problema non è la proprietà della terra, ma la libertà di usarla.

Anche il richiamo all’italianità della produzione riflette una visione distorta. Pensare che il Made in Italy debba essere protetto dall’intervento pubblico significa dubitare della sua forza. Ma un marchio è forte quando è libero, non quando è amministrato dall’alto. Le denominazioni di origine devono essere strumenti volontari di riconoscibilità, non barriere all’entrata.

Va aggiunto che le risorse promesse derivano da fondi europei già stanziati: nessuna riduzione del carico fiscale, nessuna restituzione di libertà. Solo redistribuzione politica, con benefici per le reti più vicine al potere. E nemmeno sul piano sociale i sussidi si giustificano: mantenendo prezzi artificialmente bassi e indirizzando l’offerta, si danneggiano i consumatori. La spesa pubblica, invece di sostenere l’interesse generale, ostacola la libera allocazione delle risorse.

Eppure, esempi virtuosi non mancano. La Nuova Zelanda, abolendo i sussidi negli anni Ottanta, ha reso la propria agricoltura una delle più competitive al mondo. Anche l’Australia ha ridotto drasticamente le sovvenzioni, liberalizzando il mercato. In Europa, invece, si continua a premiare la produzione sussidiata, penalizzando l’iniziativa. E i danni non si limitano al Vecchio Continente: gli agricoltori dei Paesi poveri non riescono a competere con i prodotti europei sottocosto. Le loro economie vengono soffocate. Come ha osservato William Easterly, i sussidi mascherano i problemi, impedendo lo sviluppo di soluzioni autonome. Peter Bauer ha aggiunto che queste politiche soffocano lo spirito d’impresa, trasformando gli agricoltori in soggetti passivi.

In definitiva, Coltivaitalia si inserisce in una lunga tradizione di interventi sbagliati: si finanziano settori deboli senza rimuoverne le cause, si distribuisce ricchezza senza creare valore, si alimenta il consenso anziché la produttività. Cambiano i nomi, ma il vizio resta: attribuire allo Stato il compito di far crescere ciò che dovrebbe germogliare da solo. Come ha scritto Julian L. Simon: “La risorsa fondamentale per il progresso non è il rame o il grano, ma l’uomo stesso. La principale fonte di avanzamento è il nostro patrimonio di conoscenza”. E la conoscenza, come il mercato, ha bisogno di libertà. Non di decreti.


di Sandro Scoppa