venerdì 18 luglio 2025
Ti hanno sempre detto che lo Stato è il tuo “grande padre”. Quello che si prende cura di te, ti protegge, ti cura se stai male, ti paga la pensione, ti costruisce ponti e scuole. Peccato che ogni euro che ti “regala” prima te lo ha tolto con la forza – e spesso lo ha anche sprecato lungo la strada.
La verità è più semplice, brutale, indigesta: la spesa pubblica è un ladro travestito da salvatore.
Dietro ogni bonus, sussidio, contributo o incentivo c’è una tassa che qualcuno ha pagato. O un debito che qualcuno pagherà. O, peggio, un’inflazione che erode i risparmi dei cittadini più deboli. Non c’è generosità nella spesa pubblica: c’è redistribuzione forzata, c’è clientelismo, c’è potere. E quasi mai efficienza.
Lo Stato moderno è costruito su un castello di carta che si chiama deficit strutturale. Spende sistematicamente più di quanto incassa, accumula debito e scarica il conto sulle generazioni future.
In Italia, ad aprile 2025, il debito pubblico ha superato i 3.063 miliardi di euro, con un rapporto debito/Pil tra il 135 e il 139 per cento.
Gli interessi passivi superano i 90 miliardi annui, più dell’intero bilancio dell’istruzione.
E nonostante questo, i governi continuano a drogare il consenso con nuove promesse, nuovi bonus, nuove spese.
Il debito pubblico non è solo una cifra: è una tassa differita, che qualcuno pagherà. E chi la pagherà? Non i politici, non i burocrati, ma i lavoratori, gli imprenditori, i risparmiatori di domani. I figli dei tartassati di oggi.
Lo Stato non produce nulla. Prende. Incassa. E poi spende. Ma spende male.
Ogni euro prelevato con la tassazione viene filtrato da una burocrazia inefficiente, disperso in apparati che non rispondono a logiche di mercato, e infine redistribuito secondo priorità spesso dettate più dal voto di scambio che dall’utilità collettiva.
Clientele, enti inutili, carrozzoni politici: lo chiamano “servizio pubblico”, ma nella realtà è un grande sistema di redistribuzione distorta, dove chi crea valore spesso è penalizzato e chi campa di assistenzialismo viene premiato. È l’inversione morale del merito.
Quando si parla di tagli alla spesa, il riflesso automatico è il ricatto morale: “Volete togliere soldi a scuola, sanità, pensioni?”.
Ma nessuno dice che gran parte della cosiddetta “spesa sociale” è assistenzialismo puro, che disincentiva il lavoro, la mobilità sociale, la responsabilità individuale.
Non si crea autonomia con il reddito di cittadinanza o con i bonus una tantum. Si crea dipendenza, passività, voto fidelizzato.
Una vera spesa sociale dovrebbe servire a liberare le persone, non a legarle allo Stato come sudditi. E invece, troppo spesso, la logica è quella della mangiatoia pubblica. Pagata con le tasse di chi lavora.
Ogni volta che lo Stato “fa qualcosa”, dietro c’è un esercito di burocrati, regolamenti, timbri, modulistica.
La macchina pubblica italiana costa oltre 180 miliardi l’anno tra stipendi e spese di funzionamento.
Ma l’efficienza non è neanche lontanamente paragonabile a quella del settore privato.
La burocrazia non solo pesa sulle casse pubbliche, ma soffoca l’iniziativa privata, crea incertezza, rallenta gli investimenti, disincentiva il rischio. In un Paese dove la sola burocrazia costa alle imprese oltre 80 miliardi l’anno e 14,5 miliardi ai Comuni per inefficienze, la spesa pubblica non è solo costosa: è anche controproducente.
C’è un equivoco ricorrente nel dibattito pubblico: che lo Stato, per garantire un diritto, debba per forza essere anche chi lo eroga. Ma non è così. Garantire non significa gestire. Significa assicurarsi che tutti abbiano accesso a determinati servizi essenziali – come sanità, istruzione, sicurezza – ma senza monopolizzarli.
Uno Stato moderno dovrebbe aprire questi settori alla concorrenza, alla libera scelta, alla pluralità delle offerte. Può stabilire standard minimi, può finanziare i più deboli, può vigilare sulla qualità. Ma non deve trasformarsi in fornitore universale di beni e servizi, soffocando il merito e l’efficienza con il monopolio pubblico.
Dove c’è concorrenza c’è qualità. Dove c’è monopolio statale, spesso c’è spreco, ritardo, inefficienza. Garantire i diritti sì, ma con libertà, non con l’uniformità imposta.
Il libertarismo non è egoismo. È rispetto. Rispetto per chi lavora, risparmia, investe. Rispetto per chi vuole decidere come e dove spendere i propri soldi, senza doverli passare prima allo Stato.
Tagliare la spesa pubblica non significa smantellare i servizi essenziali, ma liberarli dalla logica statalista, aprirli alla concorrenza, all’innovazione, alla libertà di scelta. Garantirli senza necessariamente fornirli direttamente.
Significa dire basta ai sussidi a pioggia, alle pensioni d’oro, agli enti parassitari.
Significa semplificare e alleggerire il sistema fiscale, abolire le mance elettorali e restituire potere alle persone.
Perché ogni euro tolto allo Stato e lasciato nelle tasche di un cittadino è un euro che può diventare impresa, lavoro, investimento. È libertà economica. Ed è anche libertà, punto.
Lo Stato non è un angelo custode. È una macchina che vive di soldi altrui. E la spesa pubblica, che tutti osannano come se fosse pioggia dal cielo, è in realtà un gigantesco sistema di espropriazione legalizzata.
Il vero progresso non si misura in miliardi di euro stanziati, ma in libertà riconquistata. E la libertà – quella vera – comincia sempre quando lo Stato fa un passo indietro.
di Andrea Chiavistelli