mercoledì 14 maggio 2025
C’è un’arte nella tassazione, diceva Keynes, ma più spesso è un’arte della distruzione, soprattutto quando il fisco ignora il valore umano e culturale della libertà.
In Italia l’arte è celebrata nei discorsi ufficiali, ma affossata nei bilanci. Si dice spesso che abbiamo il patrimonio culturale più esteso al mondo, che viviamo circondati dalla bellezza, che siamo un museo a cielo aperto. Ma chi quella bellezza la produce, la espone, la vende, spesso si trova davanti un muro: quello del fisco.
Le opere d’arte, da noi, sono tassate con un’aliquota Iva del 22 per cento, la più alta d’Europa. Altrove – in Francia e Germania – la stessa tela, lo stesso disegno, lo stesso dipinto pagano molto meno: rispettivamente il 5,5 per cento e il 7 per cento. E così chi compra, chi vende, chi crea… scappa.
Non si tratta solo di numeri: si tratta di libertà. L’arte è il gesto più umano e individuale che esista. È l’espressione della mente, del gusto, del rischio. È uno scambio tra chi ha qualcosa da dire e chi ha occhi per vedere. Eppure, nel nostro Paese, essa continua a essere trattata come un privilegio, non come una risorsa. Come un vizio da colpire, non come un valore da incoraggiare.
Questa impostazione culturale, prima ancora che fiscale, ha effetti profondi. Costringe i galleristi a comprimere i margini per restare competitivi. Spinge i giovani artisti verso mercati meno oppressivi. Induce i collezionisti italiani ad acquistare all’estero, dove il fisco non punisce la passione per la bellezza. E nel frattempo impoverisce l’intero ecosistema culturale nazionale, rendendolo sempre più dipendente dai contributi pubblici e sempre meno vitale sul mercato.
Il risultato è un mercato che si ritrae. Non perché manchino gli artisti o i collezionisti, ma perché le regole li allontanano. Il recente rapporto Nomisma sul valore dell’industria culturale lo dice chiaramente: gallerie e antiquari sono in calo, il settore si contrae. Non per mancanza di talento o di domanda, ma per un eccesso di ostacoli, fiscali e burocratici. E quel che è peggio, è che l’Italia sembra non accorgersene.
Nel frattempo, il mercato internazionale si evolve. La digitalizzazione ha allargato il pubblico, le aste online coinvolgono milioni di utenti, l’intelligenza artificiale produce immagini vendute per centinaia di migliaia di euro. Persino il fenomeno degli Nft (Non-Fungible Token), che sono certificati digitali unici, registrati su blockchain, i quali attestano l’autenticità e la proprietà di beni digitali (come opere d’arte, musica o oggetti virtuali) – oggi in crisi – aveva dimostrato quanto forte fosse la domanda di nuovi linguaggi artistici, purché liberi di circolare. Ma il nostro Paese resta fermo. Regolamenta, impone, ritarda. Invece di accompagnare il cambiamento, lo teme.
La verità è che ogni opera venduta è un atto di fiducia tra chi crea e chi apprezza; ogni galleria che apre è una testimonianza di vita civile, di pluralismo. Come ha insegnato Frédéric Bastiat, la libertà di scambiare è un diritto naturale, come la libertà di lavorare, di andare, di venire, di associare, di disporre di sé, come la proprietà. Ma quella libertà, in Italia, è inceppata da norme e aliquote che colpiscono proprio chi fa vivere la cultura. È una forma di miopia istituzionale, ma anche di sfiducia verso la società civile.
Eppure, una via d’uscita esiste. Una fiscalità più equa, semplice, coerente con gli standard europei potrebbe rimettere in moto un intero comparto. Non serve inventare nuovi incentivi: basterebbe rimuovere le barriere che oggi spingono talenti e investimenti all’estero. Si tratterebbe di smettere di pensare alla cultura come a un capitolo di spesa pubblica, e iniziare a vederla per ciò che è: una grande risorsa privata che genera effetti pubblici.
Investire nella libertà dell’arte significa anche investire nella fiducia. Vuol dire non dover certificare ogni quadro, autorizzare ogni spostamento, condizionare ogni scambio. È riconoscere agli individui la capacità di discernere valore, di scegliere cosa acquistare e dove esporlo. Significa credere, insomma, nella forza della società rispetto al sospetto dello Stato.
Luigi Einaudi lo ha detto con chiarezza: “La più grande ricchezza potenziale dell’Italia è l’abilità, la operosità, l’intelligenza dei suoi figli”. Ma perché quell’abilità possa trasformarsi in arte e lavoro, bisogna abbattere i muri che oggi separano chi produce cultura da chi vuole viverla. Il mercato dell’arte, se lasciato libero, non ha bisogno di stampelle pubbliche: ha bisogno solo di poter respirare.
Tassare troppo può essere un’arte. Ma non è arte civile: è esercizio di potere. E l’Italia, se vuole davvero tornare a essere faro culturale nel mondo, deve imparare a non punire chi la cultura la fa. E cominciare, finalmente, a lasciarla libera.
Non è una battaglia per gli addetti ai lavori: è una questione di civiltà.
Uno Stato che non tutela chi crea, chi colleziona, chi rischia in nome della bellezza, ha già smesso di credere nella propria libertà. Non servono nuovi vincoli, ma più spazio per respirare. La cultura non si pianifica: si lascia accadere. E ogni artista, ogni gallerista, ogni collezionista è un protagonista silenzioso di quel miracolo che si chiama società libera. Riconoscerlo non costa nulla. Ma vale moltissimo.
di Sandro Scoppa