Nanni Loy, il comunista dell’Italia allo specchio

lunedì 13 ottobre 2025


Era un comunista intelligente, né fesso, né radical chic”. Il ritratto in poche parole lo delinea Enrico Vanzina. Proprio così. Nanni Loy ha rappresentato l’icona dell’intellettuale di sinistra ironico e sagace in quegli anni di Botteghe Oscure. E il genio della macchina da presa curiosa e investigativa di mode e modi. il regista e autore Vanzina ne parla nel documentario del 2005, La tivù di Nanni Loy di Enrica Carteny e Maria Pia Orlandini, con la regia di Mimma Fortuna, proiettato per gentile concessione di Rai Teche in apertura della giornata-seminario, che si è svolta a Palazzo Valentini, a Roma, in occasione dei cento anni dalla nascita e trenta dalla scomparsa (1925-1995) del regista sardo trapiantato sulle sponde del Tevere e destinato a diventare uno dei pilastri della cultura cinematografica italiana. Nanni Loy. L’autore oltre lo specchio, organizzato dall’Associazione Casa della Commedia all’italiana, presieduta da Claretta Carotenuto e sostenuta da numerosi patrocini e partenariati culturali, ha visto protagonisti oltre che esperti, critici e attori, una folta platea di studenti dell’Università La Sapienza.

Perché in fondo il messaggio è rivolto a loro: “Ripercorrere le tappe di un maestro del periodo più fortunato del cinema e della tivù ha il senso di tramandare un’arte e un talento”, ha dichiarato Graziano Marraffa, presidente dell’Archivio storico del cinema italiano, coordinatore e moderatore del convegno. Il risultato è stato un grande omaggio alla perspicacia artistica dell’uomo e autore Loy. Come è emerso dalle dichiarazioni presenti nel documentario: per Lina Sastri, “aveva l’intelligenza del cuore e quel brutto carattere che gli consentì battaglie civili”; per Alessandro Haber, “era un domatore delle differenti personalità”; per Leo Gullotta, “coinvolgeva attori e tecnici, a cui dedicava enorme attenzione”. Numerosi i tratti indelebili: a cominciare dalla fisicità segnata dalla folta scapigliatura, dalla voce nasale e dall’immancabile pipa divenuta iconica come quella del presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Nato a Cagliari, all’anagrafe col nome di Giovanni Loy-Donà, l’artista si trasferisce presto a Roma dove frequenta il Centro sperimentale di cinematografia. Come ripercorre Steve Della Casa, critico e conservatore della Cineteca nazionale: “Loy ha iniziato come aiuto regista con l’amico di corso Gianni Puccini. Ai tempi per i registi era comune lavorare in coppia, vedi Mario Monicelli con Steno, poiché le riprese duravano al massimo 3-4 settimane ed era più facile dividersi i compiti. Loy ha fatto la gavetta, come si dice, perché il cinema italiano è artigianato e dunque fare la gavetta resta un formidabile apprendistato”. Ma, come ricorda lo scrittore e saggista Franco Grattarola, “l’esordio fu in parte un flop”. Spiega il regista Marco Cucurnia: “Il successo arriva quando Loy inizia a lavorare seguendo le orme di Mario Monicelli, esplorando l’eredità del padre putativo dei cineasti dell’epoca”. Non a caso, il debutto, Audace colpo dei soliti ignoti (1959) è il seguito del successo di Monicelli. E, anni dopo, la dinamica fortunata si ripete con Amici miei atto III (1985), capitolo conclusivo della trilogia inaugurata sempre da Monicelli. “La cifra di Loy era la sottile grazia con cui sapeva definire i personaggi e che ben si applicava a interpreti caratteristici come Nino Manfredi e Alberto Sordi. Nel profondo Nanni era un timido, che sapeva scegliere la strada della narrazione”.

Il periodo dell’impegno civile si realizza quando il regista affronta i grandi temi del Dopoguerra, come esplora Enrico Bernard, drammaturgo e regista, sviluppando le trame di Un giorno da leoni (1961), Le quattro giornate di Napoli (1962) e Rosolino Paternò, soldato (1970). Le quattro giornate è la cronaca obiettiva, appassionata e commovente di quelle quattro gloriose giornate del settembre 1943 in cui il popolo napoletano, da solo, più con la forza della disperazione che non con le armi, riuscì a costringere i tedeschi a lasciare la città prima ancora che gli alleati la liberassero”, scrisse all’epoca Gianluigi Rondi. E siamo così nel pieno del neorealismo, che porta le firme di Roberto Rossellini e di Vittorio De Sica. Loy ne trae la personalissima intuizione dell’arte di fare verità, segnando il progressismo con l’indagine sociologica capace di scavalcare l’ideologia e le enfasi della propaganda per consegnare i tratti sociali.

Le quattro giornate di Napoli riceve due candidature all’Oscar per la regia e la sceneggiatura. Sarà Angelo Guglielmi, l’illuminato futuro direttore di Rai 3 a cogliere il talento di Loy per consegnarlo all’indimenticabile successo di critica e di pubblico che è stato Specchio segreto (1964), la prima candid camera italiana, che riprese la serie inglese in cui si utilizzava la telecamera nascosta dietro a uno specchio. Sette puntate Rai per la regia di Loy, firmate con Giorgio Arlorio, in cui Nanni è lo sbadato, surreale e provocatorio protagonista di siparietti con la gente comune. Un’indagine clandestina dell’Italia anni Sessanta, in cui lavoratori, operai, ceto medio si susseguono in ritratti comici che sovvertono la proverbiale “protesta sindacale”.

Chi di quegli anni non ricorda la celebre gag della “zuppetta”, il cornetto di Loy infilato nei cappuccini di ignari clienti? “Prego, lo tenga lei questo cappuccino, che io ne ordino un altro”, reagisce un tale. E il camuffato Nanni ribatte serio: “No, no, a me piace fare la zuppetta nel suo cappuccino”. Racconta lo scrittore Alberto Pallotta nella relazione “La tivù tra inchiesta, commedia e letteratura”, che sembrava tutto improvvisato, ma la cucitura della serie era meticolosa: Specchio segreto vanta 100mila metri di pellicola girata quando ai tempi per un film di un’ora e 40 minuti si giravano al massimo 2.500 metri. Questo connota la misura di quanto Loy fosse un perfezionista”. Sarebbe possibile oggi recuperare quell’ideazione televisiva a vantaggio di un intrattenimento autentico e corale? Alcuni studenti replicano scettici e non solo perché sono cambiati e i tempi e le tecnologie, ma perché – come fanno notare – “oggi c’è meno libertà e quali dirigenti sarebbero disposti a trasmettere parodie sociali in un contesto in cui la cronaca è cruda, spietata e spesso violenta?”. L’altra dimensione di “Loy artista” è quella dell’intellettuale comunista che anticipa le contraddizioni alla Enzo Tortora in Detenuto in attesa di giudizio (1971), interpretato da Alberto Sordi, che narra il dramma di un innocuo geometra, trasformato in criminale per una distrazione della burocrazia.

La trama offre a Loy e allo sceneggiatore Sergio Amidei, cronache giornalistiche alla mano, l’opportunità di denunciare la necessità di una riforma del sistema carcerario e giudiziario, qualificando il genere del “cinema etico e di impegno civile”. Andrea Pergolari, Massimiliano Artibani e Francesco Sala hanno esplorato la parte conclusiva della produzione Loy, con la commedia a episodi e l’altra Napoli dei celebri Mi manda Picone (1983) e Scugnizzi (1990), fino ai progetti inediti. Lino Banfi (attraverso una videointervista di Gloria Satta), il vicepresidente dell’Anac Nino Russo, lo sceneggiatore Franco Ferrini, Massimo Massari e le attrici Ida Di Benedetto, Imma Piro e Adriana Russo hanno tributato il loro personale ricordo al regista che morì a 69 anni, il 21 agosto 1995, a Fregene per un attacco cardiaco. Guglielmo Loy, uno dei quattro figli dell’artista, ha profilato in chiusura l’eredità paterna: “Dietro l’immagine scapigliata, papà era un lavoratore serio, tenace e indipendente. Ha usato il cinema come specchio umano”.

(*) La prima foto ritrae Graziano Marraffa e Guglielmo Loy


di Donatella Papi