L’etica catastrofista di fronte alla razionalità della storia

sabato 11 ottobre 2025


Jean-Pierre Dupuy è professore di filosofia sociale e politica presso l’École Polytechnique e l’Università di Stanford, nonché membro dell’Académie des Technologies e del Conseil général des Mines. Le sue analisi sociologiche e politologiche rientrano nel novero di quelle che potremmo considerare, con un termine generico, ma che rende l’idea, dottrine catastrofiste. Secondo Dupuy infatti, “a furia di convincerci che la salvezza del mondo è nelle nostre mani e che l’umanità ha nei propri confronti il dovere di salvare se stessa, corriamo il rischio di gettarci sempre più a capofitto in quella fuga in avanti, in quel grande moto panico cui somiglia ogni giorno di più la storia mondiale”. Estimatore dell’opera di Günther Anders – il meno noto tra i condiscepoli di Martin Heidegger (gli altri due erano Hans Jonas e Hannah Arendt) – Dupuy condivide con lui l’idea che “il profeta di sventura non viene ascoltato perché la sua parola, pur se portatrice di una conoscenza o di un’informazione, non rientra nel sistema delle convinzioni di coloro ai quali si rivolge”. In altri termini, viviamo in un’epoca in cui “non riusciamo a credere a ciò che sappiamo”.

Basti pensare, per averne conferma, al fatto che, dopo un quarto di secolo in cui gli scienziati di tutto il mondo ci avvertono dei pericoli connessi con il cambiamento climatico, per buona parte dell’opinione pubblica mondiale e dei Governi che sono chiamati a prendere decisioni in merito questi scienziati sembrano ancora predicare nel deserto. Eppure, il pericolo è palesemente imminente, e lo era già quando questo breve saggio (Petite métaphysique des tsunamis) usci in Francia nel 2005, tanto che sembra che ormai dovremo rassegnarci a mettere in discussione un’idea che è divenuta da tempo un luogo comune, quella secondo cui noi dovremo rispondere alle generazioni future del mondo che gli lasceremo. Se l’idea di Immanuel Kant secondo cui il cammino dell’umanità assomigliava a una dimora che soltanto l’ultima generazione avrebbe avuto il piacere di abitare era fino a qualche decennio fa ampiamente condivisa, oggi le generazioni future sembrano invece le meno favorite della sorte. L’idea che noi siamo soltanto gli usufruttuari del futuro sembra superata dai fatti, come se il futuro stesso non fosse abbastanza “reale” per costituire un elemento cardinale delle nostre valutazioni e delle nostre scelte. E tuttavia, anche se il futuro non avesse bisogno di noi, è certo che “noi abbiamo bisogno del futuro, perché è ciò che dà senso a tutto quello che facciamo”. Il catastrofismo che rischia di essere ignorato non è però costituito semplicemente da previsioni nefaste, ma dall’annuncio degli scenari che si configurerebbero se non fossero prese le precauzioni necessarie per evitare che si avverino. Il futuro è cioè, in base alla nostra comune metafisica, un mondo possibile destinato a restare non attuale. Lo statuto metafisico della profezia di sventura si rivela così intrinsecamente paradossale: “L’evento catastrofico è inscritto nel futuro, come un destino, certo, ma anche come un caso contingente: avrebbe potuto non verificarsi, anche se, al futuro anteriore, sembra necessario”.

In base a questa metafisica ingenua, è solo l’attualizzazione di un evento catastrofico a creare retrospettivamente l’idea della sua necessità, ed è in fondo proprio questa metafisica ingenua a non rendere mai completamente credibili i profeti di sventura. Anche il catastrofismo illuminato s’imbatte dunque in un ostacolo che può vanificare le sue analisi e talora le sue profezie: “L’orgoglio metafisico dell’umanità moderna. Tutto ciò che costituisce la finitezza dell’uomo è ridotto al rango di problema, che la scienza, la tecnica, l’ingegno umano permetteranno presto o tardi di risolvere. Anche la morte è vista ormai come un problema, come la natura quando ci ostacola. L’uomo come problem solver non sa cosa sia un destino, né l’homo faber sa cosa sia la contingenza. I loro sogni di dominio rischiano di generare mostri che ci divoreranno”. Viene in mente a riguardo quel personaggio interpretato da Harvey Keitel in Pulp Fiction di Quentin Tarantino, che nelle situazioni più incresciose e sanguinarie si presenta annunciando che “risolve problemi” con la cinica sicurezza ispiratagli dalle sue scellerate competenze professionali, ma viene anche in mente, più in generale. L’arroganza ottimista di un certo frainteso storicismo che induce molti, specialmente tra le generazioni più giovani, a scambiare per progresso la stessa attitudine a nutrire risolute speranze in un futuro radicalmente nuovo rispetto al passato. Vengono in mente quelle “magnifiche sorti e progressive” su cui ironizzava Giacomo Leopardi, forse il più acuto e lungimirante analista dei tempi avvenire, lucido e schietto come pochissimi altri nel prevedere le molteplici forme di decadenza intellettuale e culturale in cui stava per incorrere un’umanità devota alle immagini di potenza delle sue radiose sorti future.

L’aforisma di Johann Wolfgang von Goethe, secondo cui “con Voltaire finisce il mondo antico e con Jean-Jacques Rousseau inizia un mondo nuovo”, potrebbe quindi trovare nel pensiero di Leopardi una postilla: che il mondo antico rimane il principale e più proficuo interlocutore critico del mondo moderno, indispensabile per sventarne le illusioni più semplicistiche e pericolose. Come osserva Dupuy, ma senza menzionare Leopardi, gli antichi preferiscono infatti “guardare la contingenza in faccia piuttosto che abbandonarsi alla consolazioni finte delle spiegazioni razionalizzanti”. Ma anche se potrà sembrare a molti strano, per non dire paradossale, è proprio guardando in faccia la contingenza che si possono impugnare argomenti di ordine morale per far fronte alle derive di una falsa morale implicita in molti atti e scelte che contraddistinguono la modernità, il cui trionfo è sua volta reso possibile dall’idea che indefettibili leggi razionali presiedano alle sorti progressive dell’umanità, tanto che in fondo anche la cancel culture non è che l’epilogo estremo di questa concezione della storia e del progresso. Non a caso, quando Susan Neiman, nel suo Evil in Modern Thought, spiega che il motivo scatenante del materialismo storico di Karl Marx è l’indignazione morale, aggiunge anche che esso avvia però un processo storico che morale non è, perché immagina che il capitalismo sia portato ad affossarsi da solo obbedendo a leggi economiche, che non sono fondate su principi morali.

Anche Hans Jonas ribadirà che non esiste un’etica marxista, ciò che apertamente contrasta con le credenze di molti sedicenti marxisti immaginari di oggi. Ne deriva che, anche dal punto di vista del marxismo, che è probabilmente la filosofia che più di ogni altra ha inteso opporsi all’andamento inerziale della società, le catastrofi morali del XX secolo, come per esempio la Shoah, non erano evitabili in base a ragioni morali. Ma se il marxismo considera la morale inidonea a modificare il corso della storia, tuttavia ciò può avvenire in modo sorprendente e, a conferma di quest’ipotesi, Dupuy racconta un apologo emblematico: “Un genio malvagio si recò in visita dal primo ministro di un certo Paese e gli propose il seguente affare: So che la vostra economia è in crisi. Voglio aiutarvi a consolidarla. Posso mettere a sua disposizione un’invenzione tecnologica straordinaria, che raddoppierà il prodotto interno lordo e il numero di posti di lavoro disponibili. C’è però un prezzo da pagare. Chiederò ogni anno la vita di 20mila suoi concittadini e, tra loro, una notevole percentuale di ragazzi e ragazze. Il primo ministro indietreggiò per l’orrore e congedò il visitatore su due piedi. Aveva appena rifiutato l’invenzione dell’automobile”.

Un simile rifiuto, che accomuna idealmente automobili e motorini alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, intese come strumenti idonei a porre fine in modo vittorioso a delle guerre, è imputabile al persistere di una prevalenza della dimensione etica rispetto alle necessità implicita tanto nelle leggi naturali come in quelle economiche, ma all’interno di questa dimensione etica marca una volta di più la differenza anche tra ciò che Max Weber definiva “etica della convinzione” e ciò che definitiva “etica della responsabilità”. Se infatti in base alla prima non si possono sacrificare le vite di 20mila persone per garantirne in prospettiva la sopravvivenza di 100mila, per l’etica della responsabilità questo è possibile e il ministro in questione avrebbe dunque commesso un errore, condannando di fatto a morte 80mila persone. La fiducia cieca in un progresso continuo e lineare prescinde comunque dalla differenza di queste due etiche in quanto, almeno in un’ottica marxista, non si fonda su ragioni etiche tout court. Essa ha semmai qualche analogia significativa con il determinismo sotteso agli esiti scientisti degli indubbi successi della ricerca scientifica, esiti che sono soliti farsi strada nella società contemporanea anche grazie alle molte omissioni che sanno produrre in una prospettiva etica.

Così, “se le nostre società accettano tanto facilmente il male costituito dalla mortalità sulle strade, se esso non pone loro particolari problemi di coscienza è proprio perché non lo rappresentano mai nei termini di questo apologo. Il problema che esso inscena è un dilemma morale classico: si tratta di sapere se le vittime innocenti possono essere sacrificate sull’altare del bene collettivo. Pur se ossessionata da questo genere di casi, la filosofia morale classica non è mai risuscita a spiegarli in maniera soddisfacente. Ora, è sufficiente naturalizzare i termini della questione morale per farla sparire del tutto. Si sussume il flusso del traffico automobilistico nelle leggi dell’idrodinamica, e le regolarità statistiche prendono l’aspetto della fatalità”. Tutto, in altri termini, è spiegabile con la ragione e le statistiche, e gli appelli della morale restano alla fine estranei al disegno complessivo di cui queste sembrano rendere conto. Poiché il catastrofista illuminato, come una Cassandra metafisica del terzo millennio, viene solitamente ritenuto mosso da istanze etiche, deve quindi rassegnarsi a vedere i suoi appelli inascoltati. Ciò che non sarà stato era destinato a non essere stato, e ciò che sarà stato ad esserlo, e in entrambi i casi nel pieno rispetto delle stesse paritetiche leggi razionali del divenire storico. Per quanto i timori del catastrofista illuminato possano rivelarsi a loro volta razionali, non possono sottrarsi a questa legge che li rende agli occhi dei più ridondanti e velleitari.

Ma alla fine, dopo la catastrofe annunciata, nemmeno coloro che erano stati saranno mai stati, perché non ci sarà più nessuno a conservarne memoria. E cosi, nella negazione aprioristica della prospettiva catastrofista, si profilano compiutamente il disegno e l’esito di quella nihilista. Anche l’impotenza politica della bontà preconizzata da Hannah Arendt troverà in questa sorta di nihilismo storicista e determinista la sua conferma. Noi viviamo infatti ormai in un’epoca in cui l’esercizio della bontà non sembra poter prescindere dalla sua ostentazione, mentre per la Arendt quando “la bontà viene alla luce non è più tale, anche se può essere utile come carità organizzata”. Quindi, bisogna “guardarsi dal fare il bene davanti agli uomini e dall’essere visti da loro”. La bontà infatti “può esistere solo quando non è avvertita nemmeno da chi la compie”, ciò per cui, come recita il Vangelo, la mano sinistra non dovrebbe sapere ciò che fa la mano destra. Eppure, la spettacolarizzazione della bontà sembra ormai un dato inconfutabile: tra uno tsunami spettacolare come quello di una strage di civili e uno silenzioso, come per esempio quello rappresentato dai milioni di bambini che muoiono da molto tempo ogni anno di malaria e di malattie legate alla fame e alla sete in una buona parte del mondo, la compassione va in maniera massiccia e cieca al primo.

Così, per una ragione simile, Hans Jonas osserva che il destino previsto per le generazioni future non riesce a esercitare di per se stesso, e cioè in virtù della sua implicita astrattezza percepita, un’influenza decisiva sul nostro animo. In questo contesto abbastanza desolante, il catastrofismo illuminato non si propone come una ricetta risolutiva. Facendo affidamento “sulla struttura sistemica del male che ci minaccia”, intende piuttosto far leva sulle capacità dell’umanità di auto-trascendersi per preservare l’esistenza del futuro, e dunque anche quella della memoria del passato, perché “il futuro è il nostro fuori, la leva che deve permetterci di sollevarci al di sopra di noi stessi e di scoprire un punto di vista da dove potremo contemplare la storia della nostra specie e, forse, darle un senso”.

(*) Piccola metafisica degli Tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo di Jean-Pierre Dupuy, Donzelli 2006, 124 pagine, 11,90 euro


di Gustavo Micheletti