“Tutto quel che resta di te”: un cuore buono

martedì 16 settembre 2025


Di che cosa è fatta la “Nabka”, che in lingua araba definisce l’esodo e la catastrofe umanitaria di 700mila palestinesi, costretti ad abbandonare nel 1948 la loro terra d’origine in Cisgiordania, a seguito del colpo di mano delle milizie sioniste? Diremmo, con gli occhi della regista palestino-americana, Cherien Dabis, che ha diretto il bel film Tutto quel che resta di te (nelle sale italiane dal 18 settembre), che la Nabka è un grande aranceto reso infertile e denudato dalle radici della sua terra nel 1948, quando una comunità pacifica e disarmata di contadini e di coltivatori viene sradicata da chi intende sostituirsi a loro con la forza, violando tutti i diritti di proprietà e cancellando le tradizioni di un popolo e delle grandi famiglie che ne facevano storicamente parte. La storia penitenziale della loro gente, costretta a un esilio senza ritorno, è narrata a un misterioso interlocutore da una anziana Hanan (Cherien Dabis, splendida nel ruolo), emigrata in Canada, e che grazie alla sua nuova cittadinanza può rientrare in Israele come turista, accompagnata dal marito Salim (Saleh Bakri), per visitare Jaffa, città natale di lui e di suo padre. Ed è Hanan a raccontare a una terza persona le dolorose vicende di tre generazioni di palestinesi della Cisgiordania. La fase iniziale, altamente drammatica, descrive gli effetti dirompenti della prima occupazione israeliana, che vede all’inizio la famiglia di Sharif (Adam Bakri, che verrà interpretato da vecchio da Mohammad Bakri) felice ancora per poco tempo.

Ed è Sharif, nel periodo sereno che precede la tempesta, a insegnare al figlio più piccolo, Salim, una bellissima poesia sulla lingua araba, in cui quest’ultima coincide con il mare, mentre le perle depositate sul fondale sono le parole profonde e toccanti della sua capacità poetica ed espressiva. Poi, tutto si dissolve nell’incubo della deportazione del capo famiglia e nella fuga della moglie diabetica e dei loro figli piccoli in un campo profughi al di fuori della Palestina, ospiti di uno zio generoso. A Sharif che resta, incurante della tempesta di fuoco che fa tremare la sua bella casa dalle fondamenta, si oppone l’impotenza e la codardia dei rappresentanti politici palestinesi, che decidono di arrendersi e auto esiliarsi, anziché lottare contro l’invasore, non avendo ricevuto né armi né soccorso concreto da parte degli eserciti arabi. Arrestato e privato della sua terra e dei suoi meravigliosi aranceti, che resero la sua famiglia benestante come esportatrice di arance nel resto del mondo (una storia identica è narrata nel bellissimo libro Come il vento tra i mandorli di Michelle Cohen Corasanti), Sharif conserverà il suo spirito ribelle e irredentista trasferendolo in toto al nipote Noor, che non perdonerà mai a suo padre di essersi umiliato, in ginocchio dinnanzi a una pattuglia israeliana, per salvargli la vita. Quando il giovane Sharif torna a casa dopo la prigionia, è un uomo provato dai lavori forzati, costretto a ogni genere di umiliazioni, non dissimili da quelle raccontate da Primo Levi in Se questo è un uomo.

Incredibile, ma vero, accade per i cicli perversi della Storia che i perseguitati divengano persecutori, in modo da vedere nel volto disfatto e sofferente dell’altro quel che un giorno fu il loro ritratto, le vesti lacere, il corpo piagato dalla sofferenza, dalla fame e dalla malattia. Una generazione palestinese dopo, in una casa della Cisgiordania occupata restano il vecchio Sharif con suo figlio Salim (l’unico che è gli è rimasto vicino, dato gli altri suoi fratelli e sorelle si sono sposati, e vivono e lavorano all’estero), la nuora e i nipoti. La scena clou è quella di un Noor adolescente e pieno di vita, che corre a perdifiato per le strette stradine del quartiere, in gara con l’amico di una vita, finendo coinvolto nella prima Intifada del 1988, in cui viene ferito mortalmente alla testa da un colpo di proiettile, sparato dalle forze antisommossa israeliane. Da lì, inizia il calvario dei suoi genitori, intrappolati dalla burocrazia, per autorizzare il suo trasporto ad Haifa, in un ospedale attrezzato per la neurochirurgia. Ma Noor non tornerà più a correre nel vento, e Hanan e Salim si troveranno messi di fronte alla scelta drammatica per due genitori: far vivere quel che resta di Noor nel corpo e nell’anima di coloro che vivranno grazie all’espianto e alla donazione dei suoi organi. Film dignitosamente e profondamente poetico, con un messaggio etico-escatologico che riguarda l’umano e il prepolitico assoluto. Da non perdere.

Voto: 8,5/10


di Maurizio Bonanni