mercoledì 9 luglio 2025
In Tracce di futuro, l’ultimo lavoro di Daniela Rabia, la vera disabilità non è fisica, ma il modo in cui scegliamo di guardare il mondo
Un uomo apparentemente disabile racconta il suo cammino contro i pregiudizi. Ma a essere prigioniera, scopriamo, non è la sua libertà. È la nostra normalità. Lo sguardo che guida il lettore in Tracce di futuro. Storia di una disabilità apparente, di Daniela Rabia (Pellegrini editore, 2025), non si posa su ciò che manca, ma su ciò che conta. Nessuna autocommiserazione, nessuna rivendicazione, nessun lamento: solo la lucida consapevolezza che la vera infelicità nasce dal giudizio che si dà di sé, non dalla condizione in cui si vive. “Nemo est magis miser quam qui se infelicem putat” (“Nessuno è più infelice di colui che si ritiene tale”), si legge in una lettera di Seneca. È la chiave di volta del libro: la libertà interiore come spazio inviolabile.
C’è un passaggio al suo interno che racchiude l’intero senso del racconto: “Sono un uomo sì, ma ho le ali… E a mia volta le presto”. Non è una frase poetica. È una sfida silenziosa, lanciata ai concetti precostituiti di normalità, abilità, uguaglianza. L’autrice scompare dietro la voce narrante – un uomo senza nome, ma con pensiero lucido – e ci accompagna lungo un viaggio che è insieme fisico e mentale, reale e simbolico. Il treno su cui si muove non è solo mezzo, ma metafora: del tempo, dello sguardo, della libertà.
L’osservazione non è semplice registrazione del mondo. È lettura, interpretazione, ascolto. E l’uomo da cui proviene – il protagonista, se così si può chiamare – guarda con l’intensità dei sapienti antichi, quelli che parlavano poco e vivevano molto. Lo si direbbe socratico: non si pone mai come modello, ma come interrogativo. Resta seduto, ma non è mai passivo. La sua narrazione è in piedi. In piedi nel pensiero, nella dignità, nel rispetto di sé. È intrisa di σωφροσύνη (sofrosyne), quella misura greca che non è moderazione, ma coscienza del proprio limite e del proprio posto.
“Più che una barriera è diventata la lente con cui guardo il mondo. Più di altri cammino, volo, salto e soprattutto mi godo l’attimo perché ne conosco il valore”.
La carrozzina non è impedimento, ma strumento di visione. Il tempo, osservato “dal finestrino”, diventa tempo interiore. Il paesaggio si riflette nella coscienza. Il viaggio esterno coincide con una veglia mentale. È il pensiero che si mette in moto, non le ruote.
L’uomo che parla non si chiude. Al contrario, apre. Parla con un cane, osserva una sconosciuta che legge, ascolta il rumore delle bottiglie che cadono. Ogni gesto banale è occasione per chiedersi: “Sono realmente un diverso? Certo nel corpo. Ma quanta strada ho percorso più dei cosiddetti normali”. Non c’è più disabilità o normalità: c’è solo l’umano. L’essenziale. Il respiro.
Il lettore comprende allora che il limite non è quello fisico, ma quello mentale. Il vero prigioniero non è chi sta fermo, ma chi non si interroga. Non chi è seduto, ma chi non vede. La voce narrante è più libera di molti: libera dalla frenesia dell’apparire, dall’automatismo del fare, dalla superficialità del giudizio. Libera di scegliere il proprio tempo, di coltivare lo sguardo, di abitare il presente. Il suo viaggio è epico, pur senza eroi. Le sirene sono il pietismo, i mostri il pregiudizio, gli dèi ostili l’indifferenza. Ma resiste, come Ulisse. Con fermezza silenziosa.
“Mi sento due metà di un uomo… mezzo agli occhi della gente”. Ma in questa presunta metà si compone una pienezza diversa. Un’interezza fatta di accettazione, lucidità, dignità. È la scelta di chi sa che non tutto è in suo potere, ma che tutto ciò che conta — il pensiero, lo sguardo, la coscienza — lo è.
Il racconto si costruisce su immagini forti: il treno come esistenza, le stazioni come possibilità, i finestrini come confini tra visibile e invisibile. “La vita somiglia tanto a un viaggio in treno… Quante volte verrebbe voglia di scendere, e invece si prosegue”. Non è teoria. È esperienza. È disciplina interiore.
Il personaggio non è isolato. È un artigiano, un decoratore, un osservatore della realtà. Non si difende dal mondo, ma lo attraversa. E lo fa con lucidità, criticando senza moralismi il nostro sguardo distratto: “Guardiamo la realtà attraverso foto, schermi, video”. La denuncia è sottile, ma netta. E si accorda con chi, come Simone Weil, vedeva nella distrazione la vera miseria dell’uomo moderno.
“Alla fine si scoprirà che non siamo nati per camminare ma per volare alto”. È la frase che chiude uno dei capitoli più intensi. Non è provocazione. È un invito alla verità. Volare non è evasione, ma comprensione. Il limite fisico non è ostacolo, ma accesso alla profondità. L’uomo che racconta non chiede spazio, ma ascolto. Non rivendica, ma testimonia.
In questo senso, il libro non parla di disabilità. Parla di umanità. Di quel territorio in cui la fragilità si fa forza, il silenzio pensiero, l’apparente immobilità conoscenza. È una meditazione sulla libertà che nasce dal limite, sul tempo abitato, su uno sguardo che sa cogliere ciò che gli altri ignorano. Un racconto essenziale che non urla, ma persuade. Che non reclama, ma sussurra. E che, con sobrietà e precisione, costringe a rivedere ciò che troppo spesso si crede ovvio.
Attraverso una scrittura misurata e luminosa, Daniela Rabia consegna una parabola civile e personale, un’epica della quiete che parla alla coscienza di tutti. E lo fa riecheggiando, senza proclami, un’altra verità antica: “Intus est qui supra nos est” (“Colui che è al di sopra di noi è dentro di noi”), ha scritto Marco Aurelio. È lì che nasce la forza che non ha bisogno di piedi per andare lontano. Ed è lì che, anche in silenzio, anche da seduti, si lasciano davvero tracce. Di futuro. E di libertà.
di Sandro Scoppa