venerdì 4 luglio 2025
Carlo Cattaneo (1801-1869), figura di spicco del Risorgimento italiano, propose una visione della libertà fondata sul progresso e l’autonomia. Non si limitò a un’astratta rivendicazione di diritti individuali, ma la sua fu visione d’insieme distanziandosi sia dal repubblicanesimo di Mazzini sia dal monarchismo di Cavour, proprio perché sapeva che l’Italia era un mosaico di Stati frammentati, ciascuno con tradizioni e identità distinte in cui si agitavano sentimenti patriottici di diverse ispirazioni.
La sua Milano, sotto il dominio degli Asburgo d’Austria, era un centro di fermento intellettuale, dove i principi del liberalismo si intersecavano con il desiderio di unità nazionale. Cattaneo, formatosi in questo ambiente, assorbì le teorie di pensatori come Romagnosi e si confrontò con le aspirazioni patriottiche delle società segrete, come la Carboneria. La sua visione federalista, radicata nella tradizione dei comuni lombardi, teneva conto delle specificità locali senza rinunciare all’unità nazionale divenendo poi un’alternativa alle visioni centraliste di Mazzini e di Cavour.
Infatti, per Cattaneo individui e comunità dovevano autodeterminarsi, liberi da interferenze politiche, religiose o culturali. Il suo federalismo vedeva nei Comuni i nuclei vitali di un sistema di autonomie: non semplici entità amministrative, ma istituzioni radicate nella tradizione e nella vita sociale, capaci di esprimere al meglio la volontà popolare anticipando i principi di sussidiarietà e partecipazione, perché “la genuina fonte della vera nobiltà italiana sta nei consessi decurionali delle antiche repubbliche municipali: e pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi”.
Punto saliente del suo pensiero fu l’idea che la libertà si conquista e si mantiene non solo con le armi ma con l’istruzione, il dialogo e la paziente costruzione di istituzioni locali forti e responsabili, capaci di governare il proprio futuro e di contribuire al progresso di una più ampia comunità.
Inoltre, l’iniziativa individuale e la cooperazione volontaria pensava che fossero la chiave non solo per lo sviluppo economico, ma anche per quello politico. La sua attività come direttore della rivista Il Politecnico (1839-1844) testimonia questa convinzione: attraverso articoli su scienza, economia e politica, mirava a diffondere il sapere, rendendo così le persone capaci di essere protagonisti attivi dei processi sociali.
La visione di Cattaneo resta di straordinaria attualità in un mondo polarizzato e complesso ed il suo richiamo a superare la violenza con la ragione e a promuovere la cooperazione tra cittadini è un monito prezioso per le società odierne, spesso segnate da conflitti apparentemente insanabili.
La sua eredità invita a coltivare un civismo consapevole e responsabile, capace di autogovernarsi senza delegare la propria libertà a poteri lontani e ci sprona a mantenere viva la fiamma della libertà come pratica quotidiana, non solo come ideale astratto, e a lavorare per un futuro in cui essa sia davvero “una pianta dalle molte radici” che non si spezza, ma cresce forte e rigogliosa.
Le idee di Cattaneo rimangono essenziali per l’Italia come quelle di Alexander Hamilton lo sono per gli Stati Uniti d’America. Essendo Cattaneo un intellettuale profondamente immerso nel pensiero europeo del suo tempo, con una vasta conoscenza delle teorie politiche e delle esperienze costituzionali probabilmente le sue letture inclusero autori come Montesquieu, Tocqueville e Constant, che a loro volta avevano conoscenza del federalismo americano, influenzato in parte dai Federalist Papers di Hamilton, Madison e Jay. L’esperienza degli Stati Uniti, come modello di federalismo attuato, era ben nota negli ambienti liberali europei del XIX secolo, soprattutto durante il Risorgimento italiano, quando si cercava il modo per unificare l’Italia senza sacrificare le istituzionali locali.
Diverse sono sia le analogie che le differenze tra Cattaneo ed Hamilton: il primo proponeva infatti un modello repubblicano in cui le autonomie locali collaborano senza sacrificare la loro indipendenza; il secondo invece, auspicava una costituzione che rafforzasse il governo centrale per garantire la coesione nazionale, senza però annullare le prerogative degli Stati. Tutti e due collegavano il federalismo al progresso economico. L’Italiano riteneva però che il municipalismo favorisce l’innovazione e lo sviluppo economico, adattando le politiche alle specificità territoriali. L’americano pensava invece che fosse necessario un governo centrale in grado di regolare il commercio, imporre tasse e sviluppare infrastrutture e di istituire una banca nazionale per finanziare lo sviluppo del nascente stato.
Cattaneo fu attivo in un’Italia frammentata, senza una storia nazionale unitaria ma avendone una fortemente legata alle tradizioni degli Stati preunitari. Hamilton, invece, agì in un contesto di Stati già parzialmente uniti, con una certa omogeneità culturale, essendo infatti tutti ex colonie britanniche.
Cattaneo allo stesso tempo guardava con ammirazione al federalismo svizzero, un modello concreto di convivenza tra comunità linguistiche e culturali diverse, unite da un patto che garantiva autonomia ai cantoni. Infatti, l’italiano scriveva “ogni popolo può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché i solo li sente, perché i solo li intende... e va in oltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia della vita sua terra punto di là il diritto federale, ossia il diritto dei popoli; il quale debba avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell’umanità.”
L’approccio del lombardo richiamava anche le riflessioni di Tocqueville sulla democrazia americana incentrate sulla partecipazione diretta dei cittadini nelle istituzioni, tutti e due condividono l’idea che la libertà nasca dalla partecipazione più prossima (comuni per Cattaneo, townships per Tocqueville) e richieda istruzione e civismo. Tuttavia, Cattaneo immaginava un federalismo municipalista per un’Italia frammentata, mentre Tocqueville analizza il federalismo americano, basato sul bilanciamento tra Stati e governo centrale. Inoltre, Cattaneo rifiutava le rivoluzioni puntando su un progresso razionale a differenza di Tocqueville che vide nella Rivoluzione Americana un modello positivo.
Le idee di Cattaneo non trovarono applicazione immediata, poiché l’Italia unita adottò un modello centralista, forse allora necessario; tuttavia, il suo pensiero successivamente ha influenzato il dibattito sul regionalismo, tanto che alla fine si arrivò alla concessione da parte di Re Umberto II dello Statuto dell’Autonomia Speciale della Regione Siciliana e poi all’istituzione delle Regioni nel 1970.
Le idee di Hamilton, invece, ebbero un impatto immediato e diretto, contribuendo alla redazione della Costituzione statunitense e alla costruzione del sistema federale americano.
Cattaneo diffidava delle rivoluzioni guidate dall’impeto emotivo, poiché riteneva che la violenza, se non accompagnata da un progetto razionale, avrebbe condotto a nuove forme di oppressione. “La libertà non è tumulto, non è insolenza; è ordine, è giustizia, è forza morale”, sosteneva, e “la civiltà non si fa con le armi, ma con le idee; non si conserva con le stragi, ma con l’istruzione e con la giustizia” (Scritti politici ed epistolari).
Nel suo Saggio sopra la libertà d’Italia (1860), scrive che “la libertà non si impone con la forza, né si dona per decreto; si coltiva nelle coscienze e si esercita nelle comunità”: quanto oggi sia attuale la sua visione è testimoniato dal fallimento dell’esportazione della democrazia che un incauto Occidente ha perpetrato per diversi anni in paesi islamici causando solo la destabilizzazione di intere aree geografiche come il medio oriente e l’Africa mediterranea, perché come scrisse in una lettera del 1849 “non basta cacciare il tiranno; bisogna che il popolo sappia governarsi, o la libertà sarà solo un sogno fugace” (Epistolario).
La visione di Carlo Cattaneo sulla libertà come processo culturale endogeno radicato nel dialogo offre una lente critica per valutare i tentativi contemporanei di “occidentalizzazione” di regioni come il Medio Oriente e l’Africa del nord che portarono al fallimento dell’esportazione della democrazia, praticata in particolare dall’amministrazione statunitense di George W. Bush, basata sull’assunto che i modelli politici euro-atlantici potessero essere universalmente applicabili.
Gli interventi in Afghanistan (2001) e Iraq (2003) sono esempi paradigmatici: l’obiettivo di instaurare democrazie rappresentative attraverso l’intervento militare con la rimozione di regimi autoritari si è scontrato con realtà complesse, segnate da divisioni etniche e religiose unitamente ad una mancanza di infrastrutture istituzionali. La democrazia è un “fattore endogeno” che richiede una maturazione culturale e politica, non un’imposizione esterna. Le Primavere Arabe (2010-2013), inizialmente accolte come un’opportunità hanno ulteriormente evidenziato questa realtà: in paesi come Egitto, Libia e Siria, la rimozione di governi autoritari e sgraditi all’Occidente ha portato a conflitti civili cruenti e a restaurazioni autoritarie, piuttosto che a democrazie liberali stabili.
La Libia è un caso emblematico. L’intervento Nato del 2011, giustificato dalla protezione dei civili durante la Primavera Araba, ha portato alla caduta di Gheddafi lasciando il paese in balia di milizie rivali con conflitti irrisolti per il controllo delle risorse energetiche. La competizione tra fazioni locali, supportate da potenze internazionali come Turchia, Russia ed Emirati Arabi Uniti, ha trasformato la Libia in un campo di battaglia per interessi geopolitici. In tutto questo marasma si è manifestata l’irrilevanza e l’incapacità dell’Unione Europea di avere un ruolo decisivo. Per non dire che l’instabilità politica nordafricana e mediorientale ha favorito l’ascesa di gruppi estremisti islamici come l’Isis ed una immigrazione senza controllo verso le coste del vecchio continente di popolazioni colpite dalla guerra e dalla fame.
In Afghanistan, peraltro, l’intervento statunitense post 11 settembre 2001, motivato dalla lotta al terrorismo, è stato un disastro politico e strategico. E la debolezza delle istituzioni locali e l’incapacità di coinvolgere le comunità afghane hanno portato al fallimento del processo di nation-building. Il tragico ritiro statunitense del 2021 ha segnato infine il ritorno dei talebani, evidenziando l’impossibilità di imporre una forma di governo senza un’adeguata preparazione culturale.
In contrasto con i precedenti disastri di Iraq, Libia e Afghanistan, la Tunisia rappresenta un raro caso di transizione democratica parzialmente riuscita dopo le Primavere Arabe. La rivoluzione del 2011, guidata da movimenti locali e da una società civile attiva, ha portato alla redazione di una costituzione sul modello occidentale nel 2014, con un sistema politico che bilancia potere centrale e partecipazione locale.
Il successo relativo in Tunisia deriva dalla sua tradizione di istruzione diffusa, dalla presenza di varie associazioni e da un dialogo politico che ha coinvolto anche gli attori locali. Tuttavia, le sfide economiche, migratorie, politiche e le recenti criticità sotto il presidente Saied (2021-2025) dimostrano che, come sostenuto da Cattaneo, la libertà richiede una coltivazione costante e il suo prezzo “è l’eterna vigilanza” come diceva Thomas Jefferson.
Nondimeno, la pur straordinaria visione di Cattaneo non è esente da limiti e criticità. La sua fiducia quasi illimitata nella ragione e nella costruzione dal basso si scontrava con la pressante urgenza di unità politica di un’Italia frammentata, che richiedeva soluzioni più immediate e centralizzate. A differenza di altri protagonisti del Risorgimento, Cattaneo tendeva a minimizzare il ruolo delle forze militari e delle grandi manovre diplomatiche, elementi invece cruciali per scardinare lo status quo preunitario. Inoltre, mancò di un progetto politico strutturato attuabile.
Un ulteriore limite significativo risiedette nella difficoltà di tradurre il suo progetto teorico in una realtà politica concreta, specie in un’Italia caratterizzata da profonde disuguaglianze sociali, analfabetismo diffuso e arretratezza economica, condizioni che rendevano difficile la costruzione di istituzioni locali forti e partecipative. Infine, la sua attenzione prevalente agli aspetti culturali e istituzionali lasciava meno spazio a una riflessione sulle dinamiche economiche e di potere che influenzavano negativamente le autonomie, non esenti, allora come oggi, dal rischio di oligarchie territoriali con interessi particolari che hanno limitato fortemente la reale partecipazione democratica dei ceti meno abbienti. Questi limiti, uniti alla scarsa capacità di aggregazione politica del movimento federalista, sono una chiave di lettura per spiegare perché il federalismo cattaneano non trovò immediata applicazione, pur restando un modello di riferimento prezioso e attuale ancora oggi.
Proprio per questo in un’epoca segnata da tremende polarizzazioni e terribili conflitti, l’impostazione di Cattaneo offre ancora un orientamento metapolitico di alto spessore per affrontare le sfide del presente in cui il processo di unificazione europea, anche se in crisi, deve riprendere slancio e anche se “la corona imperiale, che doveva congiungere in una famiglia tutte le genti cristiane, cadde in polvere prima di compiere l’annunciato prodigio. Ora le nazioni europee devono congiungersi con altro nodo; non con l’unità materiale del dominio, ma col principio morale dell’uguaglianza e della Libertà…Avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa” perché “le armi vincono un giorno, ma solo la ragione vince i secoli” (Archivio triennale delle cose d’Italia, 1850).
di Antonino Sala