La bellezza del paesaggio come fonte di coscienza civica

venerdì 2 maggio 2025


Giovanni Rosadi (Lucca, 9 settembre 1862-Firenze, 4 aprile 1925) fu una delle figure più significative del liberalismo italiano. Giurista eminente, fu tra i primi a riconoscere nel paesaggio un valore culturale e civile. Dopo la laurea in giurisprudenza all’Università di Pisa esercitò la professione forense a Firenze, ma ben presto la sua carriera si intrecciò con la vita politica e istituzionale dell’Italia liberale. Eletto deputato dal 1900 al 1924 e poi nominato senatore, oltre che un parlamentare autorevole Rosadi fu anche sottosegretario alla Pubblica istruzione in due Governi Salandra, dimostrando di saper coniugare il rigore del diritto con una visione ampia del bene comune in un’Italia in rapida trasformazione. Oltre al suo impegno giuridico e parlamentare, si distinse come precursore della tutela ambientale e fu tra i promotori della prima legge italiana a protezione del paesaggio e delle bellezze naturali, la legge numero 778 dell’11 giugno 1922. Lavorando a stretto contatto con Benedetto Croce, contribuì a rendere il paesaggio un oggetto di diritto, riconosciuto come espressione viva della civiltà di un popolo. Ne Il paesaggio e la legge (Bemporad, Firenze 1920) scrive: “La bellezza che si distrugge non risorge; e chi l’ha offesa ha tolto al popolo un conforto e all’Italia una gloria”, anticipando l’idea moderna del paesaggio come bene comune e responsabilità collettiva. Fondamentale fu anche il suo contributo, oltre che come legislatore, anche come educatore attento alla formazione civica e morale dei cittadini.

In Scritti politici e giuridici (Sansoni, Firenze 1925) sottolinea come “lo Stato che non protegge il paesaggio abdica alla propria funzione educativa: il paesaggio è scuola di civiltà e specchio della coscienza pubblica”. La sua azione fu sostenuta da un’idea di paesaggio integrata, in cui la natura, la storia e l’arte si fondono in un insieme indivisibile. Questo approccio, tanto rigoroso quanto chiaro segno di una vocazione anche letteraria, riconosceva che il paesaggio non è un ornamento, ma parte essenziale della vita delle persone e della memoria collettiva. Rosadi era convinto che ogni cittadino avesse il diritto di accedere alla bellezza non meno di quello di preservare la propria salute, andando così ben oltre l’ambientalismo oggi di moda. Nella crescente consapevolezza nazionale della necessità di tutelare il territorio egli riconosce nel paesaggio un elemento di identità e coesione sociale, contribuendo così a gettare le basi per lo sviluppo di una cultura della responsabilità ambientale. Sulla sua figura di politico, giurista e precursore si terrà il 16 maggio prossimo a Firenze, nell’aula magna della facoltà di Agraria, in piazzale della Cascine 18, un incontro dal titolo “Giovanni Rosadi, più antico e costante fautore delle bellezze d’Italia”. L’incontro sarà introdotto e moderato da Ilaria Tabarrani (dottore di ricerca presso l’Università di Firenze), mentre i relatori saranno il professor Roberto Balzani (ordinario e direttore del Dipartimento di Storia, culture, civiltà dell’Università di Bologna); Gabriella Biagi Ravenni (presidente del Centro studi Giacomo Puccini di Lucca); Guido Sali (ordinario di Economia ed estimo rurale dell’Università di Milano) e Nicoletta Ferrucci (ordinario di Diritto forestale e dell’ambiente dell’Università di Firenze).

Uomo di profonda umanità, Giovanni Rosadi resta oggi un modello di impegno civile e culturale da cui ancora trarre ispirazione, anche perché, oltre che giurista, deputato, senatore e promotore della tutela del paesaggio, fu uno scrittore di tutto rispetto, dotato di una cifra stilistica incisiva e originale, in grado di assumersi la responsabilità, oggi sempre più inusuale, di adottare narratori criticamente pensanti. Tra le sue pubblicazioni di carattere letterario, Il processo a Gesù (Sansoni, Firenze 1904), narra la storia, a tutti abbastanza nota in generale, ma non nei dettagli, di un nazareno condannato, ma sotto ogni riguardo innocente: “Irreprensibile nei costumi, semplice nei modi, inaccessibile nelle aspirazioni, aveva additato una legge unica d’amore e di solidarietà che governi il mondo; aveva amato gli umili e i poveri, s’era affratellato agli infelici e ai reietti; aveva sfuggito il fasto e la potenza; aveva intimato ai solleciti del potere che il suo regno non era di questa terra; aveva pagato le decime; era stato un buon cittadino. Ma aveva parlato di frequente contro l’ipocrisia dei farisei, perpetuati nei simulatori d’ogni convenzione sociale; aveva talvolta assalito il culto e la legge come termini di contraddizione e di menzogna”. Tra la perduta gente (Bemporad & F editori, Firenze 1908), è invece una silloge di racconti in cui i lettori potranno trovare numerosi “segni della natura maligna o dell’invincibile abitudine perversa, che portano sul viso e nelle impronte dell’anima”. Nella storia delle gesta dei protagonisti vi sono infatti tracce dei “combattimenti di giganti come in Omero, turbini di spire visionarie come in Dante, favole e lussurie quali non pensò il Boccaccio, sogni e fantasmi e follìe che non furono mai scritte”.

Un altro volume di racconti, anche molto brevi, su cui ci soffermeremo in modo più circostanziato, è infine Note in margine (Fratelli Treves, Milano, 1921), e qui l’autore trascrive sulla pagina prose di scorcio, in margine a documenti di vita e carte processuali. In un’epoca in cui tutto si velocizza e il futurismo imperversa, in questi racconti Rosadi rallenta e riflette, raccogliendo quel che cade di mano a chi lavora nel campo del diritto e conservando “l’indipendenza del cuore dinanzi ai casi altrui, o tristi o cimentosi, quali son tutti quelli che si contaminano nei contatti con la giustizia”, e considera quest’indipendenza “segno di coscienza sicura”. Il primo racconto della silloge, Caina, narra la storia di una giovane donna – cui era stato affibbiato, in virtù della maldicenza che è talora propria del senso comune, questo nomignolo carico di funesti presagi – che deve trascorrere dieci anni in galera per un’accusa ingiusta e che quando esce prova a ricostruirsi una vita. Il racconto è scritto in prima persona della protagonista, che adotta uno stile narrativo maturo e consapevole, incisivo e spesso tagliente. Sposatasi con un uomo che era stato all’origine della sua reclusione, seppur amata non potrà sottrarsi agli strali d’un amaro fato, uscendone tuttavia ancora più consapevole e forte d’un femminismo autentico. Caina, scontata la sua pena, ritornerà in paese e si troverà a dover scegliere tra due uomini diversamente amati e desiderati. A trentacinque anni, si sentirà vendicata dell’ingiusta condanna, perché sentirà di aver “conquistato il raro invidiabile segreto di soprastare alla condizione supina e recettiva della donna, destinata a far da macero a quella forza brutale”.

Alla fine, si rende conto di aver “spogliato l’idolo virile e scoperto il suo ridicolo fusto” e quando passa per le strade con gli occhi bassi e più di uno sciocco vagheggiatore loda le sue ciglia dense e nere, prova “più forte la soddisfazione di non aver più nulla da lodare né desiderare nell’uomo”. In altri e più brevi racconti affiora il gusto icastico dell’aneddoto, come in Furto d’amore, dove un giovane contadino è accusato di furto di “energia genetica” per aver “condotto le sue mucche al toro del bifolco vicino senza chiedergli il consenso né pagargli i suoi diritti”; mentre ne Il quinto giurato, uno dei giudici in un processo, dopo aver contratto la bocca in un sorriso, si passa una mano sui capelli e guarda nel vuoto, “come cercasse lontano una ragione e un rimedio di quanto gli accadeva” e finalmente, “dritto sul suo scanno e bianco in viso, ma sicuro nella voce”, grida che il condannato era innocente perché l’omicida era lui stesso. Coloro che lo avevano condannato dovettero così ammettere che uno solo fra i giudici dell’omicidio era stato giusto, ed era stato l’omicida. In Intorno a un Teschio, un altro omicida si trova considerare, pensando alla sua vittima, che anche lei era stata viva come era ancora lui, e che anche lui sarebbe stato presto un teschio con trentadue denti spianati, accorgendosi con stupore di non averci mai pensato prima, che altrimenti non sarebbe valsa la pena di provocare quella morte solo per produrre la semplice differenza di tempo che intercorreva tra gli esiti eguali delle loro vite.

Ne Il circolo dei suicidi. La fossa dell’abate, il narratore racconta invece come nacque il nome di un noto canale che divide Viareggio da Lido di Camaiore, descrivendo nel contempo le atmosfere e i caratteri che caratterizzavano la città natale dell’autore, che così descrive nella seconda metà dell’Ottocento: “Lucca è una delle città che più deliziosamente conservano il carattere ducale. Il cerchio alberato delle sue mura serve particolarmente a chiuderla nella castità della sua storia. Quando il cielo coperto cala sul rigido cerchio, il forestiero crede di trovarsi dentro un cofano perfettamente chiuso; ma se ha scorta sufficiente di preparazione e vena discreta di fantasia può vivere in un giorno la vita avventurosa di un secolo”. Nell’ombra quieta del placido sonno di Ilaria del Carretto, “composta nell’eternità della sua divina bellezza”, i visitatori di questa città della provincia toscana, che già aveva suscitato l’interesse o l’ammirazione di Micheal De Montaigne, Miguel De Cervantes e di John Ruskin, potevano percepire subito il contrasto col rumore e la festività delle strade di altre città più grandi e ben più affaccendate. In questo racconto, che è percorso dall’intricata vicenda di una paternità rinnegata, concessa e rimpianta, emerge anche la figura del noto giurista Francesco Carrara, che era allora uomo di oltre sessant’anni, con “una faccia grande e più larga in basso, capelli raggruppati in due grossi ricci sotto le tempie, naso adunco ma senza espressione di grifagno, occhi acuminati e dallo sguardo lungo, piccoli baffi, ciuffetto di peli sotto il labbro inferiore”.

Quell’uomo, “nel silenzio e nella tristezza della sua città natale”, dove esercitava nel foro l’arte della discordia processuale, “aveva scritto da poco sette aurei volumi, coi quali aveva tratto nell’ordine di una meravigliosa potenza dialettica tutte le conseguenze giuridiche della sua concezione classica del delitto”, e aveva potuto farlo perché “aveva nel cervello un diamante, col quale tagliava nettamente ogni questione, come fa il diamante sul vetro, senza disturbare le molecole della materia disputabile”. Dopo aver annotato che “nelle città silenziose si spande l’eco delle voci che emanano dalla verità come il suono dell’ore che vien dalla torre, ascoltato da tutti, non superato dai rumori”, e che vi è pratica diffusa il cercar di “costringere la diceria e il pettegolezzo”, uno dei due protagonisti, il Perchia, un avvocato laureatosi a fatica e senza aver acquisito alcuna reale competenza, nonché dissoluto sperperatore di denaro e trafficante in piaceri e dissolutezze, ma non per questo privo di una coscienza dubitante, si chiede a un certo punto se poteva farlo, se poteva cioè chiedere ai giudici che la sua figliola fosse dichiarata, per poterle garantire un futuro migliore, figliola di altri, sottraendola così al triste destino di averlo come padre. Una vicenda d’amore ingarbugliata gli offri il destro di renderla figlia a un Conte di Camaiore, cosa che avrebbe reso possibile il matrimonio della stessa figlia nientemeno che con un marchese.

Compagno di studi, più presunti che reali, del Perchia al tempo dell’università, questo conte era stato un anche un suo commilitone durante la prima guerra d’indipendenza e nel contesto della sfortunata spedizione di Curtatone e Montanara, dove aveva per la sua errabonda tristezza d’esistere inconsapevolmente cercato la morte. Dopo essere divenuto un “avanzo di Curtatone”, al Conte “non restò se non di riprendere la via del sacrifizio e tornare a casa. Male accolto dal padre, riparò presso il mare, sul confine tra la pineta di Camaiore e quella di Viareggio, in una casetta dei possessi paterni, fiancheggiante la fossa di confine, sul di cui uscio è tuttora una madonnina di gesso”. Morto poi il padre e divenutone unico erede, non poté nemmeno allora venir meno a quella sua indole malinconica “che gli rendeva sterile la giovinezza e inutile la vita”, tanto da esserne indotto “a rinunziare al mondo ed a vestire un abito che lo tenesse distinto anche nell’aspetto e appartato dalle relazioni degli uomini”. Divenuto così “abate”, neanche allora venne meno la sua inclinazione alla tristezza, che continuò anche dopo le nozze del marchese di Lambrate con la contessina di Camaiore, titolo che aveva acquisito divenendo sua figlia.

Così, al tramonto “di un alido giorno d’estate”, si era ritrovato a camminare pensoso “lungo la sponda sinistra d’un rivo che, dopo aver attraversato la pineta, finisce in mare, marcando il confine tra Viareggio e Lido di Camaiore e che è comunemente chiamata “fossa”. Di solito, durante le sue passeggiate meditabonde su quell’argine, appena scomparso il sole poteva osservare il cielo confondersi col mare e cospargersi d’una luce che sembrava venire dall’acqua e divampare in fuoco, e anche quella sera quella luce sembrava voler incendiare le nebbie e le nubi disegnate all’orizzonte. Guardando quel paesaggio, mentre rifletteva una volta di più sulla propria sorte e su quella dell’umanità tutta, l’abate ripercorreva nella memoria le sue speranze deluse e le sue inique disgrazie, maestose come tramonti. Pervaso da un senso di smarrimento che non gli era nuovo, avanzava intanto lungo la sponda, verso il mare, e poi la ripercorreva a ritroso, per ritornare ancora una volta sui suoi passi e avanzare in direzione opposta, fino quando non disparve: “All’alba seguente un pescatore di quella fossa si sentì impigliata la lenza a un oggetto che resisteva alla flessione della sua canna: era il lembo di una veste nera. Si gettò a guado e toccò un cadavere: era quello dell’abate”.

Quelle acque sono chiamate ancora oggi, in ragione di questo fatto, la “fossa dell’abate”, e fino a qualche anno fa era opinione corrente che verso sera ci si potessero sentire certi sinistri rumori: la gente infatti, anche quando scettica in simili faccende, ha segretamente fede nel soprannaturale, e gli abitatori di quella zona narravano che veramente si potessero udire, al cadere delle tenebre, “tetri rumori tra gli aridi rami, orribili rombi nelle magre acque, e che nell’ore tarde della sera una tetra figura di abate si aggirasse sul ponte prossimo al mare e poi si perdesse nella caligine silvestre”. Oggi quasi nessuno pare conoscere l’origine di quel nome, ed essa non sembra destare particolare interesse: “Non un filosofo che passa è preso dalla curiosità della sua storia. Il nome, stampato nei cartelli, negli orari, sulle tessere dei viaggiatori spensierati, ha finito per perdere anche quel senso che serbava di suggestivamente inedito, come una sommessa e misteriosa leggenda. Così passa la poesia del dolore e la pietà degli intimi ricordi”.


di Gustavo Micheletti